Against the maxi-prison and the world that needs it

2015/06/27

La merda ama stare vicino alla merda [giugno 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:51

Contro la maxi-prigione, i suoi difensori ed i suoi falsi critici

A metà maggio abbiamo avuto diritto ad una piccola valanga di merda nella stampa. I giornalisti si sono precipitati a puntare i riflettori sulla lotta contro la maxi-prigione. Scandalizzati dal fatto che tale lotta non percorra le vie legali e preconizzi l’azione diretta e l’auto-organizzazione per impedire la costruzione di questo nuovo inferno carcerario, che si rivolga non alle istituzioni e ai politici ma si faccia largo nei quartieri popolari di Bruxelles (e non solo), che non abbia nulla da condividere con i giornalisti e tutto da dialogare con altri ribelli; non hanno esitato a definirla «guerriglia urbana» e al solito «terrorismo».
Nei due anni in cui questa lotta prosegue ostinatamente, e a differenza della cricca politicante e degli accomodanti cittadinisti, non abbiamo mai usato mezzi termini: per impedire la maxi-prigione occorre portar avanti una lotta diretta ed offensiva. Auto-organizzarsi fuori da ogni struttura ufficiale, prendere la parola nei nostri spazi di lotta e nelle strade (e non davanti ai microfoni dei giornalisti o opportunamente seduti al tavolo coi nostri nemici); agire con l’azione diretta ed il sabotaggio contro le ditte che vogliono costruire questa maxi-prigione e contro tutto ciò che ci rinchiude quotidianamente in questa città sempre più simile a un campo di concentramento a cielo aperto.
Non ci sorprende che questa proposta di lotta, con la simpatia e l’entusiasmo che riesce a suscitare ovunque in chi non ne può più di questo sistema marcio, indispettisca fortemente il potere. Che dispiaccia ai giornalisti, amplificatori della voce del potere, ci fa solo sorridere. Che innervosisca i promotori e i costruttori di questa opera della repressione è nella logica stessa delle cose. Se pensavano di poter costruire questa prigione e arricchirsi sulla miseria degli altri in piena tranquillità, venendo applauditi da tutti, si sono sbagliati di grosso.
Se la nostra risposta alla stampa è stata di ignorarla freddamente continuando la nostra lotta, lontano dalle telecamere e dai luoghi dove gli avvoltoi dei media amano ammassarsi (i giornalisti sanno bene di essere accolti a sassate nei quartieri e vi si avventurano raramente senza la protezione dei loro colleghi in uniforme), quella di altri oppositori alla maxi-prigione è stata assai differente. Come alla «occupazione simbolica» (sono le loro stesse parole) in corso sul futuro terreno della maxi-prigione, dove diverse persone hanno sentito la necessità di dichiarare davanti alle telecamere di opporsi ai «gesti criminali» e di essere «pacifisti». Talmente pacifisti da preferire affiancare i magistrati (che fanno parte della loro piattaforma cittadinista contro la mega-prigione, gli stessi magistrati che condannano giorno dopo giorno le persone a crepare in galera), gli eletti, i giornalisti, gli sbirri, piuttosto che vedersi associati alla «feccia», ai «criminali», ai «clandestini», ai «poveri», ai «violenti». «Bisogna smetterla di mettere tutti nello stesso calderone», dichiarava una portavoce dell’opposizione legalitaria (che ritiene di poter fermare la maxi-prigione a colpi di partecipazione cittadina, di petizioni, di interviste, di azioni ludiche). Ebbene, siamo stranamente d’accordo: un profondo abisso separa chi lotta in maniera autonoma e diretta, muovendosi nei quartieri ed agendo di giorno come di notte, da chi preferisce le conferenze ufficiali, una ridotta maxi-prigione, qualche carota. Giorno dopo giorno, azione dopo azione, questo abisso si fa più profondo: o si lotta contro il potere che vuole imporre la maxi-prigione, o si lecca il culo al potere, alle sue leggi e ai suoi difensori, indipendentemente dalle «buone intenzioni» che si pretende di avere.
«Non abbiamo nulla a che vedere con queste azioni» affermava un «occupante» del terreno di Haren, parlando delle azioni di sabotaggio contro le imprese e contro i responsabili del progetto della maxi-prigione. Oltre a fare in questo modo un unico calderone arrogandosi il diritto di parlare a nome degli altri occupanti, cercava di colpire un aspetto importante della nostra proposta di lotta: la solidarietà fra ribelli, l’ostilità con lo Stato e i suoi sbirri. Se qualcuno pretende, per di più sollecitato dai giornalisti, che l’auto-organizzazione e l’azione diretta «discrediti la lotta», la risposta arriva praticamente da sola: ma di quale lotta parlate? Non la nostra in ogni caso.
[Richochets, n. 7, giugno 2015]

L’illusione legalitaria [noviembre 2014]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:50
All’inizio di ottobre, un primo verdetto c’è stato. Alcuni cittadini avevano presentato una domanda di classificazione del terreno ad Haren su cui contano di costruire la maxi-prigione, credendo in tal modo di impedire, o comunque ritardare, il più grande progetto carcerario della storia belga. La risposta delle autorità competenti è stata laconica: «Ma andiamo, siamo noi che vogliamo costruire questo nuovo carcere!». La domanda è stata quindi rigettata, proprio come gli altri ricorsi giudiziari presentati prima.
«È ingiusto!» diranno probabilmente coloro che difendono la via legale per opporsi alla costruzione della maxi-prigione. «La domanda non è stata attentamente valutata. I nostri eletti non hanno sostenuto le nostre pratiche. Sono possibili altri ricorsi!». Forti di questa illusione, intendono riprovarci e ricominciano a sfogliare gli articoli di legge. E così, tentano nuovamente di convincere le altre persone che si oppongono alla maxi-prigione che la via da seguire, o comunque una delle vie da seguire, è la via legalitaria. Petizioni rivolte alle autorità. Interpellanze degli eletti. Interventi presso i media. Ricorsi giudiziari. Ma sono illusioni. E nuocciono allo sviluppo di una vera lotta contro la costruzione della maxi-prigione.
Allo scopo di incanalare una eventuale opposizione, lo Stato ha previsto un margine di manovra legale per i movimenti di contestazione. Legale proprio in quanto non nuoce all’applicazione della legge (ovvero, alle decisioni delle autorità). Lo Stato legalizza e autorizza ciò che contribuisce al mantenimento del sistema, alla sua legittimazione e al suo rafforzamento. Una lotta deve determinare i propri metodi; seguire le prescrizioni di ciò che bisognerebbe fare per opporsi ai suoi progetti, significa tarparsi le ali nello scontro già non facile col potere e le sue forze giudiziarie, burocratiche, poliziesche, mediatiche, finanziarie.
Per quelli che si oppongono ad un progetto dello Stato, per quelli che dicono in modo chiaro e netto No alla costruzione della maxi-prigione, la via legalitaria è quindi un tranello che devia l’attenzione dalla vera sfida che si pone: come impedire, da noi stessi, la costruzione di questa maxi-prigione? 
Chi predica la strada legalitaria porta acqua al mulino dello Stato. È abbastanza chiaro il caso attuale di alcune organizzazioni ufficiali che si dichiarano “oppositrici” o “critiche” del progetto della maxi-prigione, servendosi artatamente della rabbia e del rifiuto categorico di tante persone, nei quartieri di Bruxelles come nel paese di Haren, per assicurarsi un posto al tavolo dei potenti. Doppio discorso, doppia faccia, è il caso di spiegarlo ancora una volta? Se è vero che nessuno può pretendere di avere una ricetta in tasca per lottare contro la maxi-prigione, non si può più restare indifferenti davanti alle reiterate manovre di sabotare l’autonomia di questa lotta e di farla deviare verso obiettivi politici (come negoziare una «piccola prigione» invece di una maxi-prigione; terre agricole accessibili e lo spostamento della maxi-prigione altrove; ecc.). Perché la lotta è anche darsi i mezzi per lottare, scoprire come poter fare le cose, appropriarsi di tutto un arsenale di metodi, del passato e del presente, per combattere i progetti del potere. Appellarsi allo Stato, il dialogo con le istituzioni, il riconoscimento e la sacralizzazione della legalità, le petizioni, le sollecitazioni presso gli eletti e i partiti, non rafforzano l’autonomia della lotta ma la spaccano. Non fanno che ripetere il vecchio ritornello su cui si basa l’autorità statale: niente è possibile al di fuori dello Stato. Noi diciamo: niente è possibile nello Stato. Diciamo: per impedire la maxi-prigione, il miglior modo di lottare è farlo da noi stessi e direttamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta. Se questa auto-organizzazione può realizzarsi in diverse maniere, se l’azione può assumere i mille colori dell’arcobaleno, la via legalitaria non preconizza che un solo metodo, sbagliato e ingannevole a nostro avviso: rientrare nel gioco dello Stato invece di opporvisi.
L’illusione legalitaria si basa sulla credenza che, malgrado l’oppressione flagrante, la corruzione e gli abusi, lo Stato serva comunque «l’interesse generale», e che perciò ci sia un senso a chiedergli qualcosa, accettando di farlo nel modo e nel momento da lui prescritti. La realtà è assai più cruda. Chi entra in lotta per impedire il più grande progetto carcerario della storia belga se ne renderà presto conto. Per lui, si aprirà la questione di come lottare contro uno Stato determinato ad imporre tale progetto con ogni mezzo possibile. Le modalità per rispondere non si trovano né in un codice né nella bocca dei politici, ma si trovano solo in noi stessi. Nella capacità di organizzarci tra di noi, senza partiti né organizzazioni ufficiali. Nella creatività di immaginare mille maniere per ostacolare concretamente il buono svolgimento del progetto della maxi-prigione. Nella determinazione di mantenersi fermi nel rifiuto di questo progetto – nel No chiaro e netto – e di far vivere questo No nella strada e nei campi.
[Ricochets, n.1, novembre 2014]

Bruxelles, prigione a cielo aperto… Scateniamoci! [numero unico, marzo 2013]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:49

Costruire mura per rinchiudere la rivolta

Una nuova prigione contro la rivolta interna…
Da qualche anno le mura delle prigioni sono perforate da rivolte, sommosse ed evasioni. Prigionieri ribelli hanno demolito infrastrutture carcerarie, acceso fuochi, rifiutato di tornare in cella dopo l’aria, sono saliti sui tetti per manifestare la propria rabbia. Hanno preso secondini in ostaggio, aperto le celle di tutti nelle sezioni, attaccato la polizia intervenuta. Il polso accelera, il respiro si fa più profondo. Nella rivolta, riscopriamo la libertà.
Anche all’esterno delle mura, qualcuno stringe i pugni e passa all’offensiva. Attaccando le aziende che speculano sulla reclusione. Dalle imboscate contro i secondini alla mitragliata contro la porta del carcere di Forest. Dall’organizzazione di evasioni alle sommosse nei quartieri. Le mura delle prigioni hanno spesso rivelato di non essere poi così solide.
Ma di fronte alla rivolta, c’è la repressione. Lo Stato l’ha appena annunciato: la costruzione di 13 nuove carceri moderne ed efficienti. Alcune sono già in costruzione, per altre il governo ne sta ancora cercando il sito. Ma è certo che anche a Bruxelles il potere vuole una nuova prigione, la più grande di tutte. Vuole costruirla sul territorio di Haren, fra Evere e Schaerbeek. Là dove oggi è ancora possibile passeggiare nell’ultimo lembo di verde di Haren e contemplare l’orizzonte, vogliono erigere mura, mura e ancora mura.
… e contro la rivolta all’esterno
Non è solo per domare la rivolta all’interno delle carceri che lo Stato vuole costruire una nuova maxi-prigione. Questa struttura diventerà un elemento indispensabile anche per quello che i potenti stanno facendo in generale. Qui a Bruxelles il potere sta per mutilare un’intera popolazione, senza pudore. Progetti edili per i potenti e i loro soldi stanno spuntando come funghi mentre la Bruxelles dei poveri sprofonda sempre più nella miseria; i gli affitti aumentano, i sussidi e i salari diminuiscono. Le condizioni di lavoro si degradano, le leggi sull’immigrazione s’inaspriscono.
Laddove lo esige il denaro, il potere ha bisogno di proteggersi dagli oppressi, di proteggere se stesso e la sua proprietà. Perché il furto e la rivolta sono sempre possibili. La brutalità dei luridi sbirri va di pari passo con la viltà delle loro telecamere e di quelle dei borghesi nei quartieri. La nuova prigione di Haren servirà in futuro a rinchiudere almeno 1200 persone. Come se non ci fossero già troppe batoste da sopportare, troppa miseria e sofferenza!
Ecco perché, in questa città che inizia ad assomigliare sempre più ad una prigione, è la rivolta a darci ossigeno. La rivolta contro i responsabili di questa vita in catene. La rivolta contro le migliaia di muri che hanno costruito, dovunque, attorno a noi. La rivolta per poter essere liberi, per poter respirare in libertà.
Invitiamo tutti a lottare contro questo progetto spaventoso della costruzione di una maxi-prigione a Bruxelles. Dinanzi all’arroganza illimitata del potere, tocca a noi prendere il nostro coraggio a piene mani.

Una gabbia dorata resta una gabbia… 

In democrazia, si gioca sull’apparenza. Si confondono le piste. In dittatura, ad esempio, quando qualcuno si rivolta succede che le forze dell’ordine cerchino di acciuffarlo per torturarlo, o che sequestrino una persona a lui vicina per fargli pressione. Qui, la violenza del potere, la violenza legale, viene chiamata con altri termini per renderla apparentemente meno crudele, meno arbitraria. La polizia non tortura nei commissariati, «fa il suo lavoro». I clandestini non vengono deportati dopo essere stati reclusi, spesso drogati con medicine, imbavagliati e pestati a sangue, vengono «rimpatriati volontariamente». I prigionieri diventano «ospiti», gli sbirri «guardiani della pace». E quando l’orrore è tale che nemmeno il gergo riesce più a dissimularlo, la democrazia brandisce i diritti dell’uomo per comprarsi la sua buona coscienza. Il nuovo verbo diventa: umanizzare.
È esattamente quanto è accaduto nella prigione di Forest la scorsa estate. Un procuratore finge di commuoversi per le condizioni di detenzione, come se di colpo avesse scoperto in che modo vengono trattati i detenuti. E hop! Immediatamente arriva su un piatto d’argento il progetto della maxi-prigione di Bruxelles, ritenuto idoneo per rimediare alla triste situazione con una reclusione più umana. Cioè come il nuovo centro per clandestini di Steenokerzeel? Senza sbarre alle finestre, ma con allarmi assordanti che partono al minimo contatto? Con celle individuali per ostacolare la solidarietà e facilitare i pestaggi? Con un cortile interno che impedisca ogni contatto con l’esterno e filo spinato tutt’attorno?
Il vero volto dell’umanizzazione, quello che la democrazia vuole farci ingurgitare, eccolo là. Fra le menzogne dei media, la formattazione subita fin dalla scuola e la costrizione al lavoro, il potere si è dotato di nuove maniere per garantire la «pace sociale». Per cercare di contenere la rabbia di tutti coloro che non accettano la miseria, ha comprato una falsa pace a colpi di sussidi sociali che presto si dilegueranno, e alimentato l’illusione che questa società, lungi dall’essere perfetta, è malgrado tutto la meno peggiore possibile.
Sì, queste nuove prigioni sono veramente umane. In ciò che l’umanità può avere di più crudele, vorace e disgustoso. Il punto è se ci lasceremo avvelenare dalle parole, fino a scordare quel che umano potrebbe significare d’altro. Il desiderio di sperimentare quel che può significare essere liberi. Vivere senza padroni che ci sfruttino, senza capi di Stato o di famiglia che decidano al nostro posto delle nostre vite, senza sbirri per proteggere l’ordine stabilito, senza scuole dove ci viene insegnato più ad obbedire e a sottometterci che a vivere con pienezza. Il desiderio di vivere liberi, senza schiavi e senza padroni.

L’urbanesimo

o l’arte di farci credere che ci viene allestito un migliore ambiente di vita
Bruxelles, inizio del XIX secolo. Le autorità iniziano a sconvolgere radicalmente la struttura della città. Quartieri interi, fino a un dato momento rifugio di folle pronte alla sommossa e poco inclini all’autorità, vengono demoliti a poco a poco. Saranno sostituiti da nuove arterie rettilinee, destinate a facilitare il controllo poliziesco ed a gestire i movimenti di massa. La circonvallazione interna ora chiude la città e nei Marolles, ad esempio, la rue Blaes trafigge stradine e vicoli. Nel 1883 viene costruito il palazzo di giustizia, che sovrasta la città con la sua cupola dorata. In questa gigantesca massa di pietra grigia s’incarna la volontà dello Stato: quella di una giustizia onnipresente e di un potere indistruttibile.
Due secoli dopo, nel 2013, l’urbanesimo continua ad estendersi trasformando a poco a poco la città in uno spazio in cui la minima scintilla di ribellione deve poter essere contenuta. Il quartiere attorno alla stazione di Midi ne è un ottimo esempio. Dopo le espropriazioni e le espulsioni di massa, il quartiere è sul punto di essere ripulito. I grandi progetti hanno fatto sorgere tutta una nuova panoplia di alberghi, sedi di imprese, un nuovo commissariato e alloggi «eco responsabili» in divenire. Con la stazione al centro di tutte queste attività.
È qui che arrivano da tutta Europa turisti nonché funzionari che decideranno del nostro avvenire. È a tale scopo, politico ed economico, che il quartiere doveva mutare pelle e sbarazzarsi dei poveri con e senza documenti che lo abitavano prima. La capitale europea dev’essere presentabile. Un po’ più in là, piazza Betlemme ha conosciuto in questi ultimi anni una montante marea securitaria. Grazie a ripetuti raid polizieschi, la piazza si è ormai svuotata delle persone. Se si prosegue su via Mérode, stessa constatazione. Le piccole piazze perdono poco alla volta la vita popolana che poteva rendere più accettabile la sopravvivenza in questo ambiente ostile. Ormai in tutti gli incroci ci sorvegliano le telecamere. Le pattuglie battono la zona, cercando di imporre un controllo costante di ogni nostro gesto.
Fra le misure di austerità, le ammende amministrative e i licenziamenti in massa, siamo sempre più vicini all’abisso. È qui che interviene l’Onem [Ufficio Nazionale dell’Impiego] e la sua soluzione miracolosa: diventare una rotella del controllo sociale. Perché, se c’è un ambito in cui non mancano le assunzioni, è quello! Vigili, secondini, impiegati precari, controllori di biglietti o agenti di prevenzione della Stib [Società dei Trasporti Intercomunali di Bruxelles], sempre più galeotti accettano di diventare gli sbirri del quotidiano.
Col moltiplicarsi di uniformi e di mezzi di controllo, la città diventa sempre più oppressiva. Basta osservare i trasporti. Come dice il loro stesso motto, il lavoro, lo shopping e la cultura «passano anche per la STIB!». Per la STIB passano anche le operazioni congiunte con la polizia, per fermare un gran numero di persone senza biglietto e/o senza documenti. Dalla carta Mobib che registra tutti i nostri spostamenti alle telecamere che ci riprendono di continuo, la STIB si ingrassa mettendo sotto controllo milioni di persone che utilizzano la rete.
«A poco a poco, l’uccello si fa il nido». Se continua così, finiremo tutti sepolti.
A meno che…

Lottare contro la maxi-prigione

Abbiamo cercato di dissipare un po’ dagli occhi il fumo che avvolge la costruzione di questa maxi-prigione a Bruxelles, per veder più chiaramente ciò che il potere si appresta ad imporci. Ma non solo per questo. Non siamo di quelli che descrivono l’orrore del mondo per poi dormirci sopra.
Inevitabilmente, si fa avanti la questione: cosa si può fare per lottare contro questa maxi-prigione? Cosa si può fare per impedire che le strade di Bruxelles diventino i corridoi della nostra prigione?
«No»
Il «no» a questa nuova prigione non può essere negoziabile. Da qui comincia la lotta, da qui può iniziare una vera battaglia contro il potere. Non è un «no» politico, con le sue coorti di partiti, di associazioni, di piccoli capi. Non è un «no» fiacco, sempre adattabile a seconda di come soffia il vento. È un «no», punto e basta.
Da noi stessi
Fin dalla nostra nascita, la prima cosa che lo Stato cerca di uccidere in noi è la capacità di riflettere e di agire da soli. Per lottare, è questa capacità che bisogna cogliere. Il potere dipende tanto dalla sua polizia, dalle sue menzogne e dalla sua repressione quanto dall’accettazione e dalla rassegnazione dei suoi presunti sudditi. Spezzata questa accettazione, scopriremo che per lottare non abbiamo bisogno di partiti, di specialisti, di capi, ma semplicemente della nostra testa, del nostro cuore, delle nostre mani.
Per impedire la costruzione di questa maxi-prigione, la lotta deve dunque venire dal basso, da noi stessi. Da piccoli gruppi di persone che si conoscono bene e che vogliono fare qualcosa; gruppi di quartiere che si incontrano e organizzano qualche azione; gruppi di azione che passano all’attacco, ma sempre a partire da questo «no». In seguito, questi gruppi di base possono incontrarsi, coordinarsi, sostenersi per rafforzare la lotta contro la maxi-prigione.
All’attacco!
Piccoli gruppi di persone, formati anche da uno o pochi individui, sono in grado di fare molte cose, non dimentichiamolo. Secondo noi anarchici, la migliore maniera per combattere la costruzione della nuova prigione è l’azione diretta. Intervenire direttamente contro ciò che rende possibile questa costruzione, moltiplicare le piccole azioni di logoramento e di sabotaggio… ossia, passare all’offensiva.
Ciò che proponiamo è da un lato una lotta che complichi la vita a coloro che vogliono costruire questa atrocità e guadagnarci (imprese di costruzione, architetti, responsabili politici…). Dall’altro, una lotta che miri ad intervenire direttamente nelle nostre strade contro tutto ciò che quotidianamente ci imprigiona tanto quanto lo farà la nuova struttura carceraria.
E quindi…
Non esistono ricette magiche per entrare in lotta ed aprire le ostilità. Per contro, se si ha una piccola idea di dove cominciare, siamo certi che scopriremo in noi, cammin facendo, forze e capacità che qualsiasi potere farebbe meglio a temere.
Cominciamo a spargere la voce che un «no» radicale si oppone alla nuova prigione, che si tratta di un «no» radicato nel rifiuto di vivere una esistenza miserabile e di assistere come pecoroni alla trasformazione di Bruxelles in una enorme prigione a cielo aperto.
Ritroviamo quelli che si dicono pronti a lottare, cerchiamo i modi di auto-organizzarci, su piccola scala, senza capi né politici.
Apriamo fin d’ora le prime ostilità. Il mostro statale e la bestia carceraria non sono invulnerabili, si trovano allo scoperto all’angolo della strada.
Che tutto ciò diventi macchia d’olio…
e il nostro «no» diventerà incontenibile quanto la nostra sete di libertà.
[numero unico stampato in migliaia di copie e poi imbucato nelle cassette postali
di alcuni quartieri di Bruxelles, www.lacavale.be]

Il castello dei fantasmi [maggio 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:48

S-a-b-o-t-a-g-g-i-o

1. (sost. m.) Azione clandestina di danneggiamento, distruzione, in genere violenta, mirante a rendere inutilizzabile un materiale, una installazione civile o militare.
2. (sost. m.) Manovra, atto avente come scopo la disorganizzazione, il fallimento di una impresa, di un progetto. 
3. (sost. m.) Atto materiale tendente ad impedire il normale funzionamento di un servizio.
Talvolta siamo indotti a credere di abitare in un mondo di fantasmi. Senza corpo né forma, essi infestano i nostri giorni e le nostre notti, cercando di determinare e di controllare la nostra intera esistenza. Si chiamano Economia, Nazione, Politica, Bene Pubblico, Stato, Ordine. Nessuno sa esattamente in cosa consistano, perché esistano e, soprattutto, i pareri sono discordi. Fantasmi quindi, inafferrabili, estremamente resistenti alla critica benevola o costruttiva, come si dice, perché dotati di una incredibile capacità di assorbimento delle mezze opinioni, degli all’incirca e delle critiche superficiali.
Il potere scava di continuo l’abisso fra questi concetti ideologici e la materialità tuttavia innegabile dello sfruttamento, dell’oppressione, dell’ingiustizia, dell’assenza di libertà. Si parla di Economia come se fosse qualcosa di separato dalle ore di lavoro che si svolgono soffocando, come se non riguardasse gli abiti che tutti indossiamo, fabbricati da milioni di schiavi in un paese lontano. Si parla di Ordine senza rendersi conto che questo concetto, applicato alla realtà, riguarda per esempio le migliaia di immigrati morti alle frontiere. Si parla di Reclusione, di Punizione e di Giustizia, ma colui che parla è difficile che trascorra i suoi anni in nove metri quadrati.
Lottando, smascheriamo il castello di fantasmi e le menzogne su cui poggia questa società. Consideriamo le cose in tutta la loro crudeltà, in termini di carne e sangue. Oltre il gioco di specchi deformanti delle ideologie. Oltre i professionisti del discorso e gli specialisti dell’analisi. Spezziamo le false separazioni fra oggettivo e soggettivo, fra sentimento e ragione, fra riflettere e agire: i nostri pensieri vanno al ritmo dei nostri cuori che danno la forza alle nostre mani per agire.
Nella nostra lotta, una delle armi che abbiamo a disposizione è il sabotaggio. L’azione clandestina e distruttrice di chi agisce in un territorio ostile, dietro le linee del nemico. Invece di ingaggiare una battaglia frontale e di soccombere davanti alle difese ipersviluppate del sistema, per impedire la costruzione della maxi-prigione abbiamo proposto il sabotaggio. Danneggiare, nuocere e distruggere gli ingranaggi della macchina che si appresta a costruire questa aberrazione carceraria: le imprese che la costruiranno, gli architetti che tengono la matita in mano, gli ingegneri che calcolano la maniera più economica e sicura per rinchiudere un essere umano, le banche e le istituzioni che la finanziano, i politici che l’acclamano e la giustificano. Mentre il potere prepara il sua valzer di fantasmi a suon di discorsi sul sovraffollamento, sulla sicurezza e la Giustizia, il sabotaggio fa emergere la materialità di tutto ciò che ha a che fare con la maxi-prigione.
Oltre ad impedirne il normale funzionamento, il sabotaggio semina il disordine nelle fila del nemico, che non può sapere da dove arriverà il prossimo colpo. Una volta tocca alle finestre di uno studio di architetti andare in frantumi durante la notte, un’altra volta è un edificio di ingegneri ad essere preso d’assalto di giorno, e un’altra volta ancora le fiamme devastano i macchinari di un cantiere e i depositi dei costruttori di prigioni. Il sabotaggio disorganizza il nemico. Ed è disorganizzandolo che questo diventa incapace di raggiungere i suoi scopi, come quello di imporre una maxi-prigione a Bruxelles.
Perciò, alla larga dai discorsi dei politicanti, dalle chiacchiere con i giornalisti, dalle illusioni legalitarie dell’opposizione cittadinista, dagli ipocriti blablabla. Demoliamo il castello dei fantasmi.
[Ricochets, n. 6, maggio 2015]

Il principale architetto della maxi-prigione e la sua responsabilità

 A metà febbraio 2015, alcuni sconosciuti hanno appiccato il fuoco alla casa di tal Philémon Wachtelaer a Bruxelles. Una deflagrazione è risuonata nella notte, bruciando la facciata dell’edificio, l’automobile parcheggiata nel cortile e causando un principio di incendio in una stanza della casa. A generare l’esplosione e il fuoco sarebbe stato un congegno incendiario composto da una bombola di gas immersa in un contenitore pieno di benzina messo sotto pressione.
Colui che è stato preso di mira non è uno qualsiasi. Si tratta infatti del principale architetto della futura maxi-prigione, amministratore generale dell’ufficio di architetti Buro II & Archi+I che si riempie le tasche disegnando le future gabbie della maxi-prigione. Se la sua abitazione è stata presa di mira, probabilmente è perché qualcuno ha voluto chiedergli conto personalmente della sua responsabilità individuale e d’oppressione in questa opera di repressione.
Nelle carceri esistenti è già così, e nella maxi-prigione sognata dal signor Wachtelaer migliaia di individui soffriranno sotto la sferza della Legge, marciranno nelle celle, saranno torturati dai colpi dei guardiani e dalle innovazioni tecnologiche di controllo disegnate dal signor Wachtelaer. E tenteranno di scalare le mura di cui il signor Wachtelaer ha calcolato l’altezza, scaveranno cunicoli per aggirare le fondamenta di cui il signor Wachtelaer ha stabilito lo spessore, segheranno le sbarre che il signor Wachtelaer ha assicurato ai datori di ordine resisteranno ai sogni di libertà. In ogni colpo sferrato contro questo edificio di sofferenza e di tortura legale, contro la sua stessa costruzione, risuonerà altrettanto la responsabilità del signor Wachtelaer, che ha scelto di servire, precisamente e in qualità di gran maestro responsabile, l’opera repressiva. Nessuna sorpresa quindi che l’eco sia già arrivata fino all’uscio di casa sua.

Agli incontrollabili [giugno 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:47
L’ordine deve regnare: è il motto di ogni potere. Il suo ordine lo conosciamo: i suoi massacri alle frontiere, il suo sfruttamento sul lavoro, il suo terrore nelle carceri, il suo genocidio delle guerre, il suo avvelenamento dei nostri polmoni, la sua devastazione di tutto ciò che è bello e libero, la sua ideologia nelle nostre menti e il suo svilimento dei nostri cuori. E a Bruxelles il potere ha fatto un salto di qualità. Si tratti dei negozi per gli eurocrati o dei nuovi loft per i ricchi, degli sbirri che si moltiplicano come conigli o delle telecamere che spuntano come funghi, dei nuovi centri commerciali o del piano urbanistico per rafforzare il controllo, il messaggio è chiaro; l’ordine deve regnare e i poveri, gli esclusi, i clandestini, i criminali, i ribelli, noi, siamo indesiderabili in questa città, buoni solo ad obbedire e a curvare la schiena o a crepare.
Oggi, uno dei progetti-simbolo del potere a Bruxelles è la costruzione della maxi-prigione, la più grande della storia belga. L’ombra delle sue mura e la disperazione delle sue celle minacceranno tutti coloro che faticano per sopravvivere in questo mondo, che non restano nei ranghi imposti da questo mondo, che si ribellano all’oppressione. Un luogo lugubre per segregare gli indesiderabili, coloro che nuocciono alla marcia radiosa dell’economia e del potere; un luogo che rispecchia tutte le strutture in cui si concretizza la violenza del potere, come i Cie, gli ospedali psichiatrici, i commissariati,… — e perché no, i centri commerciali, le istituzioni, le strade delle città diventate vasti annessi di un’enorme prigione a cielo aperto.
Battersi contro questa maxi-prigione è quindi riprendere gusto alla libertà. Impedirne la costruzione significa colpire il cammino del potere verso più controllo e più sottomissione. Sabotarne la realizzazione è aprire orizzonti di lotta che rompono con la rassegnazione che è la migliore alleata dei potenti. Ma noi non siamo né sciocchi né ingenui. Lottare contro la maxi-prigione equivale a dare battaglia a tutto ciò che rappresenta, una battaglia che non si fa relegare nella legalità, ma che si dota di tutte le armi che considera idonee. È una battaglia che conduciamo noi stessi, in modo autorganizzato e autonomo, senza partiti politici o organizzazioni ufficiali, senza politici eletti o in divenire.
Gli ultimi anni di lotta contro la maxi-prigione hanno visto un percorso disseminato di iniziative di lotta nei quartieri di Bruxelles (lontani dai riflettori dei media e dalla puzza delle istituzioni), di azioni dirette contro i responsabili di questo progetto (imprese di costruzione, architetti, ingegneri, politici, poliziotti, burocrati) e di sabotaggi ad ogni angolo della città e del Belgio. Incontrollabili, perché non conformi ai limiti imposti dal potere democratico, ingestibili, scaturendo dalla libera iniziativa che non obbedisce ad alcuna gerarchia, ingovernabili, nel rifiuto di qualsiasi dialogo col potere al fine di ricreare spazi di vero dialogo libero tra individui in lotta. Tre caratteristiche che non possono essere compatibili con alcun potere, e che per questo hanno il dolce sapore e l’orgoglioso incanto della libertà. Tre caratteristiche capaci di irrompere in tutti i conflitti sociali in corso, ovunque si delinei una linea di demarcazione tra il potere e i suoi oppositori, nella vita di ciascuno e ciascuna.
Tutto ciò va di traverso al potere. Non gli piace che lo si dica, che se ne parli, che si proponga, che si agisca in tal senso. Se solo qualche settimana fa i giornalisti versavano tonnellate di merda sulla lotta contro la maxi-prigione (quindi contro chiunque lotta in modo autorganizzato e autonomo contro il potere), mercoledì 10 giugno 2015 all’alba gli agenti federali sfondavano le porte di quattro abitazioni di compagni e del Passage, il locale di lotta contro la maxi-prigione ad Anderlecht, per perquisire e sequestrare le parole di rivolta che il potere non riesce a tollerare. Una repressione il cui obiettivo è chiaramente cercare di frenare questa lotta che riesce, con la parola e con gli atti, col volantino e col fuoco, con l’azione diretta e con l’attacco, di giorno e di notte, in tanti o in pochi, ad aprirsi un varco. Queste manovre della sbirraglia rispecchiano la repressione che costituisce il quotidiano di tutti gli indesiderabili a Bruxelles e nel mondo intero: dalle torture nei commissariati agli omicidi nelle prigioni, dai rifugiati annegati nel Mediterraneo alle persone esauste e morte di lavoro e asfissiate dalla merce.
Se il potere semina la paura per meglio controllare e regnare, «c’est reculer que d’être stationnaire (*)»: affermiamo allora la gioia di lottare liberamente, la fierezza delle idee che si oppongono alle loro opere morbose e la solidarietà tra coloro che bramano sempre il sogno di un mondo sbarazzato del potere. Continuiamo le ostilità contro tutto ciò che ci soffoca.
Nessun passo indietro:
attacchiamo la maxi-prigione,
i suoi costruttori e i suoi difensori!
Coraggio e determinazione a chi lotta contro il potere e per la libertà!
[giugno 2015]
* un verso della canzone “Le triomphe de l’anarchie” di Charles d’Avray (1878-1960): «stare immobili significa fare un passo indietro».

I progetti dello Stato non sono invulnerabili [gennaio 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:45
Lo Stato belga vuole costruire una maxi-prigione ad Haren, a nord di Bruxelles. Questo immenso campo di reclusione ospiterà 1200 celle, con sezioni per uomini, minori e donne con bambini. Si tratta della più grande prigione mai costruita sul territorio belga, un progetto che riempie le tasche di parecchie imprese.
La costruzione di questa atrocità, e di altre nove carceri nel paese, è emblematica della società che ci viene imposta. Dobbiamo essere più che mai consapevoli che il valore della nostra vita è un valore economico. Si aspettano da noi che alimentiamo anima e corpo la crescita economica; che sgobbiamo per arricchire i ricchi accontentandoci di una mera «sopravvivenza». Lo Stato, che vuole mantenere e rafforzare il tran-tran quotidiano, si dota di un ampio ventaglio di mezzi per ottenere ciò: la costruzione di nuovi centri commerciali, la ristrutturazione urbana, l’allestimento di loft nei quartieri più poveri, la creazione di vie pedonali per attirare i turisti e altri consumatori, la costruzione di enormi parcheggi,… non sono che una parte. Ma anche le misure di austerità, l’intensificazione della caccia ai disoccupati, l’estensione di ogni genere di sanzioni e multe, la costruzione di nuovi commissariati di polizia, l’aumento del numero di telecamere di sorveglianza e… la costruzione di nuove galere come quella prevista ad Haren. In un momento in cui le contraddizioni dell’ordine attuale si fanno sentire sempre più brutalmente, lo Stato intende isolare e spezzare coloro che non possono o non vogliono coscientemente rientrare nei ranghi. Sa bene che da ciò dipende l’esistenza del suo potere e non risparmierà né soldi né sforzi per fortificarsi.
Ma i progetti dello Stato non sono invulnerabili. Non potranno mai resistere contro la scelta determinata di ciascuno e ciascuna di insorgere e passare ai fatti. Smettiamo di chiedere concessioni al potere, e cominciamo ad attaccarlo ovunque sia possibile. Lottiamo contro questa nuova maxi-prigione e la società che la produce. Staniamo i responsabili per far loro conoscere l’arte del sabotaggio e dell’azione diretta. Organizziamoci in modo autonomo, soli o in piccoli gruppi agili, e lanciamoci in una battaglia per la distruzione di questo progetto dello Stato, e nel contempo per la distruzione dell’idea che rischia di segnare le nostre vite…
[manifesto affisso a Bruxelles]
Intanto…
Martedì 13 gennaio 2015, verso le 9,30 del mattino, un impiegato dell’ufficio di architetti Jaspers & Eyers, situato sul Tervuursevest a Louvain, avverte la polizia della presenza di due involucri sospetti davanti all’edificio, oltre che del fatto che una delle loro telecamere di sorveglianza era oscurata con della pittura. Giunta sul posto, la polizia fa evacuare l’immobile degli architetti. Le strade vengono chiuse alla circolazione, proprio come una tangenziale o le uscite dell’autostrada. Verso mezzogiorno, arrivano gli artificieri dell’esercito, oltre alla polizia scientifica e ai servizi di ricerca della polizia federale. I primi analizzano gli involucri sospetti, quindi il robot vi spara sopra una cartuccia d’acqua. Alla fine, i due ordigni vengono neutralizzati.
Più tardi, la procura comunica che almeno un pacchetto era così composto: una bottiglia contenente del liquido (probabilmente benzina), diavolina, fiammiferi e una bomboletta di gas. L’inchiesta sarà condotta dalla Polizia Federale di Louvain.
Questo amabile ufficio di architetti, il più grande del Belgio, ha offerto i suoi servigi ai seguenti progetti: il nuovo carcere di Beveren, il nuovo quartier generale della Polizia Federale a Bruxelles, diverse sedi di grandi imprese come GDF Suez, Mercedes, Dexia, Proximus, KBC Banque (a Bruxelles), KBC sede regionale (a Gand), Barco (a Courtrai), di importanti progetti commerciali come la costruzione ancora in corso del centro commerciale al Toison d’Or (a Bruxelles), la costruzione prevista del U-Place Shopping Center (a Machelen)… Questo elenco, non esaustivo per quanto riguarda gli orrori realizzati da questi architetti in Belgio, potrebbe essere ulteriormente completato con le loro opere all’estero. Inoltre, non potevano ovviamente mancare all’appello nel candidarsi alla costruzione della più grande prigione della storia belga a Bruxelles, per quanto ad aver ottenuto quel contratto sia stato un altro ufficio di architetti.
…succede qualcosa 
Mercoledì 14 gennaio non faceva freddo dappertutto… Una manifestazione selvaggia ha un po’ riscaldato le vie di Anderlecht tra Delacroix e Clémenceau. Verso le 18, viene acceso un fumogeno, sono velocemente tracciate delle scritte, e una trentina di persone si incammina per la via dietro a striscioni contro la maxi-prigione, i controlli e le retate. C’è una bella energia, si urla «Né sbirri, né guardiani, né maxi-prigioni», «Aria, aria, apriamo le frontiere», «È tempo di sabotare la macchina di reclusione», «Fuoco, fuoco, fuoco, a tutte le prigioni», «Mattone su mattone, distruggeremo tutte le prigioni»… Alcuni volantini vengono lanciati lungo il percorso. All’altezza della metro Clémenceau, il bancomat di una banca viene spaccato, mentre il distributore di biglietti della STIB [ndt: trasporto pubblico] resiste ai colpi. Attorno, ci sono giovani troppo contenti. Pur essendoci ovviamente i soliti tradizionali curiosi che guardano passare indifferenti il gioioso corteo, ci sono anche gesti e parole di solidarietà con la manifestazione: colpi di clacson, grida di «fuoco alle prigioni», ecc. All’incrocio fra via Clémenceau e via de la Clinique vengono prese di mira le decine di finestre dell’ufficio di ingegneri VK Engineering che fa soldi costruendo nuove carceri*. Diversi gruppi di persone applaudono. Alcuni vorrebbero raggiungere la manifestazione, sfortunatamente troppo tardi, è il momento di disperdersi. Ma là o altrove, ogni posto è buono!
* L’impresa VK Engineering ha partecipato alla costruzione del nuovo carcere di Beveren e collabora alla costruzione prevista della maxi-prigione ad Haren e del nuovo carcere a Termonde.
Calata di gendarmi al Passage
Il 14 gennaio, alle 19,30, un furgone di sbirri staziona ad Anderlecht davanti al Passage, spazio di lotta contro la maxi-prigione. Sulla piazza adiacente, due auto in borghese aspettano. Che ci sia un legame con la manifestazione selvaggia che c’è stata nelle strade del quartiere poco prima? O è loro intenzione disturbare la discussione pubblica prevista quella sera e intitolata «Azione diretta contro la maxi-prigione»? Poco importa, il furgone si muove nel giro di mezz’ora, la discussione inizia con un po’ di ritardo.
Dopo un’ora di dibattito, tre furgoni e due auto di sbirraglia col loro commissario arrivano fulminei. Ci si precipita quindi verso la porta per impedirne l’ingresso. Ma riescono a sfondarla con un piede di porco, quindi prendono i documenti e frugano parte dei presenti, non senza svariate resistenze. Nove persone che hanno rifiutato di farsi identificare vengono portate via, e il locale viene perquisito. Dopo un controllo di identità al posto di polizia di Demostene, tutti i fermati vengono più o meno rapidamente rilasciati, e si conoscerà il pretesto degli sbirri: la ricerca di elementi legati agli «attacchi» avvenuti quello esso giorno contro «un ufficio di architetti».
Benché l’improvvisa intrusione di una quindicina di divise sia comunque spiacevole, piuttosto che lamentarci, ciò non farà che rafforzare la nostra volontà di lottare contro la maxi-prigione e chi vuole costruirla.
Alcuni individui presenti al Passage
[17 gennaio 2015]

Ai blocchi di partenza [febbraio 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:43
A fine febbraio 2015, lo Stato ha assoldato una ditta per installare delle reti attorno al terreno del futuro cantiere della maxi-prigione ad Haren, a nord di Bruxelles. Una ruspa ed alcuni operai, scortati dai poliziotti, hanno quindi cominciato a recintare il terreno per «predisporre i lavori al riparo dagli sguardi indiscreti dei curiosi». Un’altra impresa ha iniziato i lavori di demolizione di un vecchio sito industriale che si trova anch’esso sul terreno del futuro cantiere. Sono i segnali innegabili che il progetto della maxi-prigione avanza e che lo Stato intende aumentare la velocità per erigere la più grande galera del Belgio. È difficile non comprendere il suo messaggio allorché inizia… installando una recinzione per proteggersi e piazzando telecamere di videosorveglianza nella zona di Haren. La costruzione di questo carcere condurrà inevitabilmente alla militarizzazione dei dintorni.
Pronti
Se il consorzio Cafasso (di cui fanno parte le aziende Denys, VK Engineering, Buro II & Archi+I) dovrà aspettare fino a giugno per ottenere gli ultimi permessi necessari, lo Stato ci prepara nell’attesa qualche scherzo di cattivo gusto. Così, a marzo, ci sarà una «pubblica inchiesta» dove i cittadini sono pregati di dare la loro opinione sul progetto (chi può ancora credere a questo genere di trucchi?). In ogni caso, sarà poi tanto più facile intimare loro un «basta chiacchiere» e dipingere gli oppositori radicali come «estremisti» e «terroristi»… Lo Stato si prepara e vuole essere pronto per imporre a qualsiasi costo il suo progetto.
E noi, noi siamo pronti? Ciascuna e ciascuno tra noi, fra coloro che si battono contro questa maxi-prigione e il mondo che la produce, ha riflettuto su ciò che conta di fare per far fallire questo piano? Le possibilità sono diverse: dalle azioni contro i costruttori agli attacchi dei responsabili, dai blocchi della routine quotidiana alle manifestazioni selvagge, ecc.
Via
Ci sembra probabile che l’avvio del cantiere non si farà attendere molto. Cominceranno prima dell’estate? È possibile. È adesso e in ogni momento che bisogna martellarli e metter loro i bastoni fra le ruote. Ma quando cominceranno i lavori, piuttosto che farsi scoraggiare, intimidire e dichiararsi sconfitti, sarà l’occasione per fare nuovi passi in quella danza che è la lotta contro questo orrore. Quando le macchine e i costruttori arriveranno sul terreno di Haren, facciamo più rumore possibile nelle strade di Bruxelles, nei quartieri in cui abitiamo e lottiamo. Per lasciare un segno e fornire loro uno scorcio di quanto seguirà – come auspichiamo operando in questa direzione – nel corso della costruzione di questo orrore. Accendendo i fuochi della rivolta nei quartieri, mineremo i pilastri su cui poggia qualsiasi progetto dello Stato: la rassegnazione e la passività degli oppressi. Da qui partirà l’assalto per distruggere questa maxi-prigione.
PS: Le aziende che hanno cominciato a preparare il terreno ad Haren per la costruzione della maxi-prigione sono:
Van Kempen (lavori di demolizione, Anversa),
APB (bonifiche dall’amianto, Brabant)
Verbruggen Groep Mol (recinzioni, Anversa).
Senza tutti questi collaboratori, la maxi-prigione non potrà mai essere costruita. A buon intenditore…
[trad. da Ricochets, bollettino contro la maxi-prigione e il suo mondo, n. 4, marzo 2015]

Manifesto internazionale : Rompiamo le righe [maggio 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:41
Tutti in riga. Così ci vogliono, dal primo all’ultimo respiro. In riga nelle aule scolastiche, alle casse dei supermercati, sul posto di lavoro, incolonnati nel traffico, negli uffici della burocrazia, nei seggi elettorali… fino ad arrivare all’ultima riga, quella dei loculi nei cimiteri. Una intera esistenza trascinata così — muscoli scattanti solo negli inchini, cuori desideranti solo merci — nella sicurezza di una galera.
Perché è ad una galera che ormai assomigliano le nostre città, dove ogni spazio viene riprogrammato per essere sorvegliato, controllato, pattugliato. Gli abitanti sono come detenuti scortati dallo sfruttamento capitalista ed ammanettati dagli obblighi sociali, sempre sotto l’occhio di una telecamera, ad ogni passo, tutti con la stessa voglia di evadere da consumare davanti agli onnipresenti schermi.
La nostra è una società carceraria che promette benessere ma mantiene solo massacri, come dimostrano i sogni naufragati di chi tenta di entrarvi e i corpi bombardati di chi si ribella alle sue porte. A neutralizzare chi si prende la libertà di non elemosinare e di aprirsi da sé la propria strada ci pensano i vari legislatori, magistrati, gendarmi, giornalisti.
Se a Bruxelles è in costruzione una nuova maxi-prigione, ad Atene viene imposto un regime di reclusione speciale ai prigionieri più riottosi; se a Parigi viene posta la prima pietra al nuovo Palazzo di Giustizia, a Zurigo e a Monaco sono in programma altri mostruosi Centri di Giustizia e Polizia. Se i poteri si accordano al di là delle frontiere per applicare strategie controinsurrezionali, i laboratori di ricerca e l’industria della sicurezza accelerano per fabbricare la pace sociale. E dappertutto, dalla Spagna alla Grecia passando per l’Italia, la repressione si abbatte su chi si è macchiato del crimine più intollerabile: farla finita con l’obbedienza e spronare gli altri a fare altrettanto.
Ma le grandi opere della repressione non incontrano solo il plauso, il silenzio o la lamentela. Talvolta si scontrano anche con una ostilità risoluta e ardita, come sta capitando al più grande carcere belga in via di costruzione. Il suo cantiere deve ancora essere aperto che già la sua storia è costellata di azioni dirette contro tutti coloro che ne sono coinvolti, istituzioni pubbliche o aziende private. Dalla vernice ai sassi, dai martelli alle fiamme, dai danneggiamenti ai sabotaggi, è un universo d’attacco che straccia ogni codice penale, ogni calcolo politico, ogni accomodamento con lo Stato. E questa sete di libertà può diventare contagiosa. Ovunque.
L’essere umano non è nato per stare in riga, a capo chino, in attesa del permesso di vivere.
Sollevare la testa, armare il braccio e sfidare il potere: è qui che inizia la vita, nel far saltare tutte le righe.
[Il manifesto cartaceo si può richiedere a finimondo@riseup.net
Altre versioni: breakranks.noblogs.org]

Aria! (dossier sulla lotta) [marzo 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:40
Scaricare qui il dossier en PDF. 
Questo è un dossier sulla lotta contro la costruzione d’una maxi-prigione a Bruxelles, lotta cominciata alla fine del 2012 e tuttora in corso.
Una lotta specifica, contro una struttura concreta del dominio. Se non ci si vuole limitare a intervenire qui e là, cercando di rintuzzare i mille orrori che quotidianamente ci impone questa società, allora si può sempre prendere in considerazione la possibilità di scegliere uno dei suoi progetti più significativi e decidere di iniziare una lotta autonoma contro di esso. Per non disperdersi in troppi rivoli, per non fare da truppa a battaglie altrui.
Una lotta contro la repressione dello Stato, ma al tempo stesso contro una concezione della vita stessa e dello spazio urbano che la deve contenere. Messi in fila sotto gli occhi delle telecamere, chi nei raggi di un carcere e chi nelle corsie di un supermercato, detenuti e “liberi” cittadini condividono giorni e notti non troppo dissimili: sorvegliati nei percorsi, controllati negli spostamenti, registrati nei contatti, catalogati nelle richieste, sfruttati sul lavoro, alienati nei desideri, sedati dalla televisione.
Una lotta contro un obiettivo facilmente identificabile da tutte le «classi pericolose», ancora ben presenti nei quartieri della capitale belga, ma che è potenzialmente riconoscibile da (quasi) tutti. Perché con l’incremento delle misure securitarie, con l’inasprimento legislativo, la possibilità di finire dietro le mura di quella prigione rischia di conoscere ben poche eccezioni. E più una minaccia è indiscriminata, più l’interesse per la sua neutralizzazione può diventare generalizzato.
Una lotta capace di unire la chiarezza delle parole espresse in più maniere alla molteplicità dei fatti diurni o notturni, individuali o collettivi. Ricchezza che non conosce proprietari, a cui si può contribuire e da cui si può attingere liberamente. Senza giuramenti di fedeltà, senza tessere di partito. Perché lo scopo è di diffondere un metodo che è al tempo stesso una prospettiva, non di vedere esaudita una rivendicazione umanitaria. 
Una lotta lanciata da chi non nasconde la propria ostilità permanente nei confronti di ogni forma di potere, ma ripresa anche da altri. Considerato come l’orizzonte istituzionale stia colonizzando l’intero immaginario umano, l’anarchismo oggi non rischia di godere di grande popolarità. Ma gli anarchici impegnati in questa lotta, da un lato non si trincerano nell’autoreferenzialità, ma vanno alla ricerca dei loro possibili complici; dall’altro non elemosinano consensi a chicchessia, conoscendo bene l’abisso che separa il desiderio di sovvertire questo mondo dal bisogno di riformarlo.
Mai confondere il crimine chiamato libertà con l’affare chiamato politica. Il primo ha bisogno di teste calde che si trovano solo in basso. Il secondo ha bisogno di buoni tutori che stanno solo in alto. E forse è proprio questa consapevolezza il migliore suggerimento che ci sta dando questa lotta ancora in corso.

Tutti in riga? [maggio 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:37
Mentre in Italia i mass-media si lamentano perché un paio d’ore di rabbia contro banche, negozi e automobili in un paio di strade di Milano avrebbero «distrutto la città», rovinando l’inaugurazione di un Expo dove i responsabili della fame del mondo — governi e multinazionali — si sono dati appuntamento per discutere su come combattere la fame nel mondo (suicidio collettivo delle classi dirigenti?), in Belgio i giornalisti hanno iniziato a loro volta a lanciare un allarme. All’inizio di questa settimana i loro lettori sono infatti venuti a sapere che «in questo momento, un gruppo particolarmente attivo semina il terrore a Bruxelles».
Bella scoperta, si dirà. Tutti sanno che la capitale belga ospita la sede del Parlamento Europeo. Da lì partono le leggi per controllare e reprimere e sfruttare. No, non è di questo che stanno parlando. Gli uomini di potere in giacca e cravatta sono buoni, seminano solo simpatia. Ah, ok, abbiamo capito. Si tratta della Nato, il cui quartier generale si trova anch’esso a Bruxelles. Da lì partono gli ordini di invadere e bombardare e massacrare. Macché, non è nemmeno di questo che stanno parlando. Gli uomini di potere in tuta mimetica sono buoni, seminano solo democrazia.
Macché, il problema è un altro, dicono, ben più temibile: «gli anarchici vogliono creare il panico in Belgio». Gente terribile, sapete. Protestano contro la costruzione di una maxi-prigione ad Haren (predisposta ad accogliere 1200 “ospiti”, la più grande del paese), e addirittura ce l’hanno «anche con la polizia ed altri simboli dello Stato». Gli inquirenti li sospettano di non elemosinare diritti cittadinisti e di non piantare patate zadiste, ma di essere gli autori di una lunga serie di azioni che da un paio d’anni colpiscono le ditte che si sono aggiudicate gli appalti per l’opera. Pare addirittura che si disinteressino di massaie e mamme col passeggino, ma siano solidali con diversi galeotti, fra cui i più noti rapinatori di banche del paese. E si dice che vogliano rendere i quartieri più caldi di Bruxelles «incontrollabili», non più tranquilli: anziché aprire mense o ambulatori popolari per sfamare e curare i poveri — che lo Stato mica può pensare a tutti, e bisogna pur dargli una mano! — osano aprire biblioteche sovversive e punti di incontro per i nemici delle prigioni. E diffondono in ogni maniera le proprie singolari idee anarchiche, anziché ripetere in coro quelle democratiche. E, come dei Franti, ridono alla notizia della morte di un secondino.
È contro queste canaglie così irriducibilmente differenti dalle persone dabbene che i giornalisti belgi stanno latrando, sguinzagliati dai loro padroni impegnati in una partita di caccia. È probabile che, prima o poi, si udiranno i primi spari. Si perderanno nell’ombra o raggiungeranno la preda? In Belgio, come in Italia, come nel resto del mondo, il partito dell’Ordine si sta mobilitando per farla finita con ogni anelito di libertà. Ma come insegnano gli ignoti sabotatori belgi: «dessine des cages, récolte notre rage».
[Finimondo.org, 6/5/15]
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