Against the maxi-prison and the world that needs it

2015/12/30

Né la loro guerra, né la loro pace. Per la rivoluzione sociale [Dicembre 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:28

La guerra è arrivata fin davanti alla porta delle vostre case. I militari che stazionano nelle strade ne sono la dimostrazione. I controlli rafforzati in strada fanno sparire centinaia di immigrati nei campi di deportazione. Gli sbirri sono in apprensione e applicano una tolleranza zero schiacciando tutti coloro che non restano all’interno dei ranghi. I giornalisti fanno penetrare il messaggio del potere nelle nostre teste. E il denaro piove per finanziare la lotta contro «la minaccia».

Il piano annunciato dal governo di controllare ogni casa di Molenbeek, e in seguito, come dubitarne, ogni casa nei quartieri popolari, è rivelatore di quale sia il reale obiettivo: gli esclusi, i poveri, i clandestini, i ribelli. Lo Stato sfrutta l’occasione di un atto sanguinario di guerra a Parigi per dare un giro di vite. E dà un giro di vite prima di tutto a livello mentale: che si parteggi per i soldati dell’Isis, o per i soldati dello Stato. È la pura logica della guerra. I due campi ci disgustano entrambi, e per la stessa ragione: tutti e due cercano di imporci il loro potere e la loro legge. L’uno nel nome del capitalismo e del regime democratico, l’altro nel nome della religione e della costruzione del nuovo Stato del califfato. E tutti e due perpetrano massacri. La sola differenza è che uno usa i bombardieri e l’altro utilizza i kamikaze.

Entrambi hanno un nemico comune, un nemico mortale: la libertà. Lo Stato qui schiaccia la libertà per garantire lo sfruttamento capitalista e l’abbrutimento tecnologico. Lo Stato laggiù la schiaccia per imporre la sua legge che considera divina. Nella guerra che si fanno l’un l’altro, a subire le maggiori perdite sono le lotte per la libertà. Qui, come là. E non dimentichiamo che la guerra è letteralmente prodotta anche qui: le industrie di armamenti vanno a pieno regime, i centri di ricerca inventano armi sempre più micidiali e perfide, le imprese della sicurezza conoscono un boom senza precedenti.

Di fronte allo stato d’emergenza, alla guerra che si appresta a divorarci, è ora di uscire dai ranghi. Uscire dai ranghi di ogni potere, si definisca democratico o islamico. Uscire dai ranghi per creare spazi di lotta per la libertà, per non soccombere al fatalismo rassegnato del bagno di sangue.
Il luogo di incontro per i disertori dalle loro guerre e dalla loro pace fatte di sfruttamento feroce, per i ribelli contro ogni potere, è la lotta per la libertà. Una battaglia da condurre oggi con i clandestini contro le frontiere e le deportazioni, con i non sottomessi che lottano contro la costruzione di una maxi-prigione a Bruxelles, con tutti coloro che lottano contro le misure repressive e di austerità (le due facce della stessa medaglia) del governo. È qui che occorre soffiare forte sul fuoco. Perché, mentre lo Stato decreta la mobilitazione totale e ci ingozza con la sua ideologia securitaria, mentre invia il suo braccio armato nelle vie in cui abitiamo, mentre si appresta a soffocare ogni battaglia per la libertà, non si può restare disarmati. Le nostre armi sono quelle della libertà: il coraggio di pensare da soli; la determinazione di sabotare i loro edifici, le caserme, le aziende, le prigioni; la solidarietà fra ribelli.

I tempi a venire saranno difficili e sanguinosi. Ma è nelle tenebre che si riesce a veder ardere più radiosamente i fuochi di libertà, contro ogni Stato e contro ogni potere.

Anarchici

[manifesto affisso a Bruxelles]

2015/12/15

Proseguiamo le lotte per la libertà – A proposito dei sabotaggi dell’Alta Velocità e di una caserma militare

Filed under: Italiano — lacavale @ 12:18

Quando le tenebre avviluppano i quartieri, immergendo la città in uno stato d’assedio come suprema affermazione del potere dello Stato e della sua ideologia, è facile cedere alla rassegnazione totale. Quando strepitano le trombe della guerra e del massacro, schiacciando le lotte per la libertà per far largo alla contesa tra due poteri che cercano di imporsi, è facile pensare che tutto è perduto. Quando i bombardamenti mediatici martellano il messaggio dell’ordine, spingendo ai margini ogni grido di rifiuto e di ribellione, è facile smettere di pensare da soli e farsi trascinare dal flusso sanguinario.
Eppure… Nell’ultima settimana lo Stato ha cercato una totale adesione ai suoi valori, minacciando di brutale repressione chi non si fosse conformato. Di fronte alla cancrena jihadista che ha divorato, prima di ogni altra cosa, i rivoluzionari in tanti paesi del mondo (Egitto, Siria, Libia) – rivoluzionari coraggiosamente insorti contro i regimi in carica e per la libertà, e che tutti gli Stati del mondo intero hanno preferito veder massacrare dalle bombe statali o trucidare dalle esecuzioni jihadiste – ha tentato di affermare il trionfo della sua visione del mondo: un mondo agghiacciante di sfruttamento capitalista e di oppressione statale. Ed ora vorrebbe decretare che l’unica guerra a cui tutti sono chiamati a partecipare è quella che sta conducendo coi concorrenti islamisti, cercando di soffocare la sola guerra che noi, rivoluzionari contrari ad ogni potere, statale o religioso che sia, siamo pronti a condurre: la guerra sociale contro gli oppressori e gli sfruttatori. E lo Stato coglie l’occasione per rafforzare il proprio arsenale repressivo. Perquisizioni a tutto andare. Inasprimento legislativo. Adattamento della costituzione per imporre il braccialetto elettronico a chi minaccia il suo ordine (e non crediate che rivoltosi e rivoluzionari siano esclusi dalla sua lista nera). Più strumenti per sbirri e servizi segreti. Arresti a profusione di clandestini e di ribelli. Oltre all’ovvia accelerazione della militarizzazione delle frontiere e della costruzione di nuove carceri, come la maxi-prigione a Bruxelles.
Eppure… non tutto è perduto, la rassegnazione è la stessa patologia di una settimana fa; la necessità di pensare da sé, al di fuori di ogni canone, è la sola maniera di demolire l’ideologia dello Stato e dei suoi concorrenti.
Abbiamo appreso dalla stampa che due atti di sabotaggio sono stati compiuti in Belgio, due sabotaggi nella stessa notte. Due azioni che annunciano che la lotta per la libertà può e deve continuare, qui ed ora, anche se le condizioni diventano più dure ed il terreno di scontro meno favorevole. Due azioni che mostrano l’abisso che separa lo Stato e coloro che pensano come uno Stato quali gli adepti del nuovo califfato, entrambi pronti a commettere massacri, a seminare il terrore per preservare o conquistare il potere; un abisso che li divide da coloro che lottano per spezzare l’influenza del potere sulla vita di tutti e che passano all’attacco per liberare, non per assoggettare.
Due atti di sabotaggio nella notte fra il 29 e il 30 novembre.
Il primo è stato un sabotaggio, in quattro punti differenti, della rete internazionale dei treni ad alta velocità (TGV, Thalys, Eurostar). Appiccando il fuoco ai cavi di fibra ottica lungo la strada ferrata vicino ad Ath, nel Hainaut, tutta la circolazione di quei treni è rimasta paralizzata per più di un giorno. Un giorno in cui i delegati internazionali e i ministri che dovevano recarsi a Parigi per un vertice sono rimasti bloccati, in cui i funzionari d’azienda, gli eurocrati, i dirigenti sono stati costretti a restare in stazione a guardare i tabelloni che annunciavano la soppressione dei loro treni. Questo sabotaggio ci mostra che con mezzi semplici è sempre possibile tagliare le arterie del potere e dei suoi uomini, delle sue reti di trasporto e di dati. Ed è nel disordine generato che si aprono spazi non saturati dai discorsi del potere, spazi in cui la libertà può spiccare il volo.
Il secondo sabotaggio ha preso di mira nientemeno che la caserma militare delle forze speciali dell’esercito belga e dell’intelligence militare a Heverlee, nel Brabant fiammingo, una delle più importanti del paese. I(l) sabotatore(i) sono penetrati protetti dalla notte, aggirando sistemi di controllo e pattuglie, per colpire cinque veicoli militari con bombe incendiarie artigianali. Il sistema di accensione pare non abbia funzionato, ma il messaggio non poteva essere più chiaro: voi occupate le vie di Bruxelles, massacrate persone in tanti paesi del mondo su ordine statale, seminate il terrore con le vostre uniformi, i vostri blindati e le vostre armi da guerra, ma non sarete mai al sicuro da un’azione di sabotaggio. Un singolo atto è riuscito ad intaccare e ridicolizzare l’aura dell’esercito e il suo capo supremo, lo Stato, e questo in pieno stato d’emergenza. Un atto che in qualche modo propone a tutti coloro che sono stufi delle loro guerre di attaccare direttamente dove esse vengono prodotte: nelle caserme, nelle industrie d’armi e di sicurezza, nei centri di ricerca tecnologica. Un atto che non può che essere quello del disertore di tutte le guerre, pur non rinunciando alla guerra sociale contro la guerra del potere.
È facile abbandonare, ma è sempre possibile continuare. Di fronte alla guerra per il potere, soffiamo forte sulle braci della guerra sociale contro ogni potere. Ci sono battaglie che non avranno vita facile nel prossimo futuro, la lotta contro le frontiere, la lotta contro la costruzione della maxi-prigione, i conflitti contro le misure d’austerità e la ristrutturazione capitalista. Rafforziamole per farle diventare altrettanti punti di incontro per i disertori, i non sottomessi, i refrattari. E che le azioni di sabotaggio continuino ad illuminare le tenebre.

5/12/2015

Distr(a)zioni

Filed under: Italiano — lacavale @ 12:16

«L’inconscio si vendica di notte»
Louis Scutenaire

Bruxelles, la capitale d’Europa, è una città sotto assedio. I soldati — mitra spianati, dito sul grilletto — la pattugliano giorno e notte.
D’ora in poi chiunque sia animato da cattive intenzioni, non solo da quelle inneggianti alla guerra santa, deve imparare a camminare per le strade rasentando i muri a testa bassa. La vita nel centro di questo paese, che è anche il centro politico del vecchio continente, deve scorrere in maniera tranquilla, normalizzata, pacificata. È l’obiettivo di ogni sorveglianza, il senso stesso della pace sociale: nulla deve accadere.
E infatti nulla è accaduto a Bruxelles la notte fra il 29 e il 30 novembre. Tutto era sotto controllo. Ma nella zona di Ath, una sessantina di chilometri ad ovest, qualcuno ha incendiato in più punti i cavi della rete ferroviaria dell’alta velocità. L’indomani, niente Thalys e Eurostar che collegano Bruxelles a Londra o Parigi, niente Tgv diretti nel sud della Francia. Tutto bloccato. Fra i nomi eccellenti di chi ha dovuto annullare i propri impegni a causa del sabotaggio figura anche il ministro francese dell’Economia, atteso nella capitale belga per un vertice coi suoi “omologhi” europei, nonché alcuni suoi colleghi belgi diretti a Cop21.
No, proprio nulla è accaduto a Bruxelles la notte fra il 29 e il 30 novembre. Tutto era sotto controllo. Ma ad Heverlée, una trentina di chilometri ad est, qualcuno è penetrato nella caserma sede della Forze Speciali e dei Servizi Segreti. Raggiunti alcuni veicoli militari, vi ha collocato dei congegni incendiari artigianali. La fortuna ha aiutato gli audaci (che hanno potuto allontanarsi indisturbati), ma il clima purtroppo no: forse a causa dell’umidità notturna la miccia si è spenta. Le fiamme non sono quindi divampate dentro il perimetro militare più sorvegliato e protetto del Belgio, ma solo sulle gote di tutte le autorità.
Con migliaia di soldati dispiegati sul territorio, con l’allerta al massimo livello, qualcuno ha sfidato lo Stato e lo ha umiliato entrando nella casa delle sue forze d’élite sotto il loro stesso naso.
Ecco, questi due avvenimenti concomitanti (non ci interessa sapere se per caso o per scelta) sono una magnifica dimostrazione che nulla potrà mai fermare una volontà individuale armata di determinazione. Dal centro alla periferia, c’è una civiltà intera da distruggere. Parlamenti ed Assemblee, misure legislative e calcoli politici, ragioni di Stato e strategie di movimento, gelo sociale e venticello attivista… niente e nessuno può riuscire a soffocare questo fuoco chiamato libertà.

Finimondo, 3/12/15

2015/12/01

Dawa ovunque contro la maxi-prigione!

Filed under: Italiano — lacavale @ 18:47

Al momento dell’avvio dei lavori, lo Stato resta sempre determinato a realizzare il suo progetto della maxi-prigione. Esso agita lo spettro della repressione contro chi lotta. Ha la necessità di difendere questo investimento gigantesco, parte di un piano ancora più vasto di una decina di nuove galere.
Il suo obiettivo è chiaro: rinchiudere sempre più persone per sempre più tempo.

E queste misure non sono riservate ai soli prigionieri di dentro. Anche fuori, il giro di vite si generalizza: con condizioni di sopravvivenza sempre più dure, migliaia di persone espulse dal mondo del lavoro, nuove uniformi che pullulano, telecamere di sorveglianza a tutti gli angoli delle strade… La maxi-prigione è solo la ciliegina sulla torta.

E quindi, che si fa? O ci facciamo rinchiudere nelle nostre vite di merda, o attacchiamo coi mezzi che riteniamo più idonei tutti coloro che stanno per forgiarci un quotidiano da caserma: costruttori, architetti, ingegneri e prestatori d’opera nella maxi-prigione, fino ai politici che prendono decisioni, passando per tutti coloro che si arricchiscono con l’affare della sicurezza e della reclusione.
Ma anche disturbando il loro ordine, aggiungendo il nostro tocco chiassoso a questa città che vorrebbero civilizzata e senz’altra vita se non quella della merce.

Non è svendendo la nostra lotta per qualche apparente miglioria che riusciremo a metter loro i bastoni fra le ruote. Piuttosto, ciò che temono è un movimento completamente agile, fatto di piccoli gruppi, senza partiti politici né capi, che decidono da soli dove e come attaccare.

Nessuna ricetta, ma una miscela che ha un potenziale esplosivo: una pluralità diffusa e incontrollabile che, attraverso l’autorganizzazione e l’azione diretta, può superare i muri che vorrebbero imporci.

Scateniamoci contro tutti coloro che mettono sbarre alla nostra vita!

[Manifesto affisso a Bruxelles, novembre 2015]

Di fronte alla guerra e allo stato d’assedio: rompiamo le righe [Novembre 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 18:45

Stato d’assedio a Bruxelles. Centinaia di militari appostati nella via, migliaia di poliziotti pattugliano le strade della capitale europea. Scuole e università sono chiuse, la rete dei trasporti è quasi paralizzata. Le strade sono sempre più deserte, la paura contagia. I controlli nelle vie si moltiplicano e avvengono col mitra alla tempia. Se lo spazio è stato saturato dalle forze di polizia, anche le menti lo sembrano. E forse ancor peggio.

Sembrano finiti i tempi in cui gli Stati europei potevano far la guerra altrove nel mondo con attacchi aerei, occupazioni, aperture di nuovi mercati, sfruttamento selvaggio e saccheggio delle risorse, preservando i propri territori da atti di guerra per quanto non proprio simili, in ogni caso con la stessa logica. La guerra ha colpito il cuore della capitale francese, e non svanirà furtivamente. E ogni logica di guerra raccomanda di colpire nel mucchio. Come fanno gli Stati fin dalla loro esistenza, contro i propri sudditi e contro i sudditi di altri Stati. Come hanno fatto e fanno tutti coloro che aspirano a conquistare il potere, a imporre il proprio dominio. Che sia islamico o repubblicano, democratico o dittatoriale. Perché il dominio si insedia calpestando la libertà, la libertà di ciascun individuo. Autorità e libertà si escludono reciprocamente.

Alla guerra come alla guerra, quindi. La saturazione delle menti col discorso del potere elimina gli spazi di lotta per l’emancipazione umana, o li spinge comunque ai margini, ancor più di quanto fossero prima. La mobilitazione deve essere totale. Con lo Stato o con loro — e chi aspira a tutt’altro, chi si batte contro l’oppressione e lo sfruttamento, tutte quelle migliaia di ribelli e di rivoluzionari che sono stati assassinati e massacrati dagli Stati costituiti o in costruzione, che sono perseguitati in ogni parte del mondo, devono ormai considerarsi fuori gioco. Sull’altare del potere che già gronda sangue, migliaia d’altri aspettano il proprio turno di essere sacrificati.

Chi è responsabile? Occorre ricordare dove sono state prodotte le bombe al fosforo che hanno bruciato Falluja, chi ha consegnato le tecnologie informatiche ai servizi segreti dei regimi di Assad o di Sisi, chi ha addestrato i piloti che hanno bombardato Gaza? Occorre ricordare come vengono estratti il cobalto ed il silicio per gli strumenti informatici dalle profondità dell’Africa, come vengono prodotti tutti i beni di consumo che troviamo sugli scaffali dei supermercati e dei negozi? Occorre ricordare come il civile capitalismo gestisce i suoi centinaia campi di lavoro, dal Bangladesh fino al Messico? Da dove vengono le sinistre ombre dei droni che colpiscono ovunque nel mondo? Di come e in nome di chi vengono annegate da anni migliaia di persone nel Mediterraneo? Allora, dite, chi è responsabile?

Ma se i nostri occhi di ribelli guardano a ragion veduta verso l’alto per trovare la risposta, bisognerebbe che guardassero anche dentro noi stessi. Perché nel prossimo futuro, come già nel presente e in passato, è grazie alla nostra passività che ci renderemo complici della nostra oppressione. E questa passività non è solo l’inazione del braccio, è anche il piano di abbrutimento programmato da decenni dal potere che ci ha privato degli strumenti per comprendere la realtà, per comprendere la nostra rabbia. Che ci ha privati di ogni sensibilità se non decretata in funzione delle necessità del momento, di ogni capacità di sognare. È da qui, da questo programma di riduzione dell’uomo, che provengono oggi coloro che decidono di compiere delle stragi, di partecipare al gioco del potere, di massacrare anch’essi. Sarebbe stupido credere che le loro stragi possano colpire i potenti e le loro strutture. La guerra moderna in un mondo ipertrofico di tecnologia e di massacri a distanza non consente più tali sottigliezze, se mai queste ultime abbiano potuto esistere nella testa di uomini in guerra.

Nei quartieri di Bruxelles, oggi sotto occupazione militare, bisogna dirlo, tutto è stato utilizzato per frenare la rivolta sociale, per far estinguere la rabbia contro un mondo spaventoso e crudele. Che siano i corsi di cittadinanza e di promozione della democrazia (che sgancia bombe), che siano i meccanismi di controllo offerti dalla religione, che sia il doping massiccio di mezzi tecnologici: tutto, piuttosto della rivolta. Un gioco che talora sfugge anche dalle mani del potere, come sta accadendo oggi. E si colpisce nel mucchio. Tanto più se si appalesa la finzione di una ricompensa celeste, che da secoli e ancora oggi riesce a tenere milioni di schiavi nell’attesa della redenzione promessa sotto il giogo. In qualche misura, i decenni durante i quali lo Stato belga ha utilizzato l’islam per calmare gli spiriti, per mantenere il controllo sulle comunità degli esclusi, per gestire le contraddizioni sociali, si rivoltano oggi contro di esso. Ma forse ancor più contro la possibilità e la prospettiva di una rivolta liberatrice.

Di fronte alla militarizzazione dello spazio e a quella delle menti, di fronte alla guerra in cui gli Stati e gli aspiranti potenti ci trascinano — ben sapendo che saremo respinti sempre più ai margini — il nostro sforzo dovrebbe concentrarsi sul rifiuto assoluto di entrare nel gioco. Un rifiuto che comporta anche il rigetto delle regole che stanno imponendo. Oggi non fate rumore. Restate a casa, cioè nei ranghi. Cedete il posto ai terroristi della democrazia e ai terroristi del califfato. Che sia difficile violare questa occupazione e rompere le regole del gioco è fuori di dubbio. La scelta del disertore, di chi rifiuta di fare la guerra per i potenti, l’ha sempre esposto a mille e una repressione. Ma chissà se ai margini troveremo altri respinti, altri disertori, altri esclusi, altri sacrificati con cui sabotare la guerra in corso e lottare, senza limiti, per delle idee ostili a qualsiasi potere. Chissà se ai margini, in quell’angolo, la fiera internazionale, sfidando tutte le autorità, rinascerà in mezzo a un mondo dilaniato dalla guerra civile?

Se l’ultima cosa a cui ora rinunciamo è proprio il desiderio di libertà e il sogno in grado di affinare il nostro spirito, di far palpitare il nostro cuore e di armare le nostre mani, occorre allo stesso tempo sforzarsi di guardare in faccia la realtà. Gli spazi si restringono, il sangue già scorreva, scorre oggi e scorrerà di più, la lotta per la libertà e la rivoluzione ha senz’altro tempi difficili davanti a sé. Le condizioni in cui può svilupparsi la lotta rivoluzionaria peggiorano e dopo il massacro dei sollevamenti popolari degli ultimi anni in diversi paesi, per noi che ci troviamo nel continente europeo arriva il momento in cui ciascuno e ciascuna dovrà affrontare una questione forse terribile per le conseguenze, ma ricca di sfide: a dispetto di tutto, siamo disposti a lottare per la libertà?

Anarchici
Bruxelles, 23/11/15

Contro la guerra, contro la pace: a fuoco i progetti del potere! [Agosto 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 18:43

Siamo in tempo di pace? Ufficialmente, sì. Ma ormai è da tempo che l’espressione stessa «dichiarare guerra» è diventata obsoleta. Le guerre contemporanee non vengono più «dichiarate», fanno parte della quotidianità della gestione degli Stati e delle varie potenze. Così sono state dotate di nuovi aggettivi, gli uni più ingannevoli degli altri. Operazioni umanitarie. Missioni di pace. Operazioni anti-pirateria. Colpi chirurgici. Neutralizzazioni mirate. Protezione delle frontiere. Lotta anti-terrorismo. Per cui oggi sarebbe più giusto parlare di «guerra permanente».

Le missioni militari non si contano più. Tranne qualche eccezione, non si tratta più di conflitti fra Stati, ma di operazioni rivolte contro «ribelli», «terroristi» o «criminali» che per un motivo o per l’altro minacciano l’economia capitalista e gli equilibri dei poteri in carica. È bastato qualche vero e proprio sollevamento rivoluzionario alle porte dell’Europa (Tunisia, Egitto, Libia, Siria) e la macchina da guerra europea è passata ad una velocità superiore. E questo, non solo all’«esterno» delle frontiere. La militarizzazione riguarda anche l’«interno», ovvero tutto ciò che concerne la repressione e la gestione delle contraddizioni sociali (ricchi e poveri, oppressi e oppressori, inclusi ed esclusi). A furia di «minacce terroristiche», il color cachi è riapparso nelle strade. Gli oggetti tecnologici, trangugiati freneticamente dalla grande maggioranza della società, così come i dispositivi di sicurezza, hanno mostrato il vero volto anche a coloro che si ostinano a non voler né vedere né capire: strumenti estremamente diffusi per il controllo  della popolazione. La propaganda mediatica contro i terroristi, i devianti, i clandestini, i criminali, si intensifica. Le aziende di sicurezza privata vanno alla grande, d’altronde vengono effettuate sempre maggiori funzioni di sorveglianza e di guerra dalle imprese private che forniscono mercenari. I laboratori di ricerca, lo sviluppo di nuove armi, i coordinamenti a livello internazionale per far fronte alla «minaccia» hanno il vento in poppa. Per parlare ancora di pace, bisogna proprio essere ciechi come un giornalista.

La guerra non è soltanto questione di massacri e di omicidi su scala industriale. Essa richiede una «mobilitazione permanente» della popolazione per difendere gli interessi del potere in carica. Due sono le scelte: o si è con il potere, o si è coi «terroristi». Chi non ha potere da difendere o da conquistare, chi rifiuta il terrore contro la popolazione (che questo terrore provenga dallo Stato e dal Capitale sotto forma di guerra, inquinamento industriale o sfruttamento, o che provenga da coloro che aspirano a erigere un nuovo potere oppressivo, come i «jihadisti») senza tuttavia farsi disarmare, si ritroverà presto con le spalle al muro. La guerra permanente trasforma le persone in «uomini in guerra» con pensieri uniformi quanto i loro comportamenti, obbedienti ciecamente ai propri comandanti, insensibili e crudeli.

«Se volete la pace, preparatevi alla guerra», si diceva nella Roma antica. E noi, amanti della libertà, non possiamo che essere contro la guerra e contro la pace. La pace a cui aspirano gli Stati oggi – e probabilmente non c’è mai stata differenza – è la pace dello sfruttamento capitalista e dell’oppressione sulla stragrande maggioranza delle persone del pianeta. A tal fine, si preparano non solo ad annegare in un bagno di sangue ogni tentativo di insurrezione liberatrice contro il loro ordine, ma operano in permanenza secondo una logica militare, qui e altrove. Un bell’esempio di quanto affermiamo – che le sfere militari, poliziesche e civili si fondono insieme nelle dottrine di «sicurezza» di questo mondo iper-tecnologizzato e interamente al servizio degli interessi del potere e del denaro – è la continuità che si può scoprire fra la recente intensificazione delle operazioni militari, la militarizzazione delle società europee e il sensibile rafforzamento della repressione. Se nelle acque del Mediterraneo la gestione dell’immigrazione denota ormai apertamente un carattere da operazione militare, a Bruxelles il potere vorrebbe costruire la più grande prigione della storia belga. Ovviamente, il potere cerca di presentare questi due esempi come del tutto separati, perché un piatto disgustoso diviso in piccole porzioni s’ingoia più facilmente. Tuttavia, nella guerra che gli Stati stanno conducendo, che il capitalismo conduce, che qualsiasi potere conduce, non dobbiamo farci trarre in inganno circa i loro autentici obiettivi: le potenziali rivolte popolari e le aspirazioni a una rivoluzione sociale che si propone di spazzare via per sempre ogni potere. E la maxi-prigione di Bruxelles non fa eccezione: servirà non solo a rinchiudere sempre più persone che lo Stato ritiene nocive ai suoi interessi e alla società, ma anche a fare da spauracchio nei confronti di tutti coloro che pensassero di rivoltarsi contro lo Stato.

È per questo che riteniamo che oggi la lotta contro la costruzione della maxi-prigione sia una lotta importante. Perché, se attacca un esempio concreto del rafforzamento della repressione statale, essa dà battaglia anche alla stessa ragione di Stato. Rimanere spettatori, subire la militarizzazione della società, assistere passivamente (collaborando di fatto all’opera devastatrice e omicida dello Stato) alla trasformazione delle città in vasti campi di concentramento a cielo aperto, è triste come le pecore che si lasciano condurre al mattatoio. Lottare affinché la maxi-prigione vada in fumo prima che possa rinchiudere una sola persona, è perciò un primo passo per riarmarsi di fronte allo Stato, con pensieri, con sentimenti. E con atti.

Tradotto da Ricochets, n° 10, agosto 2015

2015/09/26

Le mura della prigione di Forest rimbombano… molto forte [settembre 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 17:21
Quando ci giungono echi che riescono a perforare le mura della prigione di Forest, quando si è subita la reclusione in quelle celle putride, quando si fa visita ad un parente devastato dalla detenzione, c’è solo una reazione sensata possibile: l’urlo della rabbia.
Gli anni passano, i suicidi e i morti in questa galera di Bruxelles si susseguono, gli scandali che scoppiano di tanto in tanto si dissolvono altrettanto rapidamente di come sono apparsi e le condizioni di detenzione non fanno che peggiorare. Gli anni passano, e ogni giorno che questo carcere resta in piedi diventiamo in qualche modo tutti più complici delle atrocità che lo Stato infligge ai detenuti nel nome della Legge e dell’Ordine. Certamente non dimentichiamo che c’è chi è più responsabile: i politici, i direttori carcerari, i secondini aguzzini, i medici che coprono le aberrazioni col loro silenzio, le imprese che si arricchiscono con questa galera. Ma l’ombra di Forest pesa su tutti noi. Esiste anche perché noi continuiamo ad accettare di subirla.
Il fatto è che il confine fra il dentro e il fuori non è così netto come si preferisce credere. Quando avalliamo, col nostro silenzio e la nostra rassegnazione, l’esistenza di un luogo talmente abietto come la prigione di Forest proprio accanto alle nostre case, quelle mura non sono sufficientemente spesse da sbarazzarci di ogni responsabilità. Il carcere è questione che riguarda ciascuno di noi, ci piaccia oppure no.
Sia chiaro. Se ne parliamo qua, non è per deprimerci, e tanto meno per «impietosirci» per la sorte dei detenuti. È un grido di rabbia, la sola che possa riuscire a mettere fine a quanto accade dietro il filo spinato della prigione di Forest. La sola capace di alleggerire il fardello e di far entrare un po’ d’aria in quelle celle fetide. La sola in grado di liberarci, noi che siamo fuori – o piuttosto ancora fuori, poiché al contrario del banchiere, del padrone o del ricco, il ribelle, l’escluso, lo sfruttato hanno buone possibilità di incontrare la prigione sulla propria strada – ma che percepiamo l’ombra di Forest.
L’urlo della rabbia, quindi. Rabbia, lo precisiamo, non richiesta di aiuto. Che senso avrebbe rivolgersi ai politici o agli amministratori di questo mondo per domandare qualcosa? A che pro indirizzarsi ancora ai responsabili che da anni approvano attivamente le atroci condizioni della prigione di Forest? La rabbia non cerca di convincere chi sta in alto, ma serve a tentare di mettere fine, subito e direttamente, ad una situazione intollerabile. Tutto il resto, comprese le iniziative caritatevoli con le migliori intenzioni del mondo, non contribuisce che a far perdurare la situazione.
Ma c’è di più. Oggi il potere sfrutta vergognosamente le atroci condizioni nella prigione di Forest per promuovere il suo piano di costruire una maxi-prigione a Bruxelles. Facendo leva sul disgusto che si prova davanti a ciò che fa subire ai detenuti, vorrebbe farci avallare un progetto di reclusione ancora più ampio. Più umano, dichiara. Per far fronte al sovraffollamento, sostiene. Per chiudere finalmente la prigione di Forest, insiste. Intanto, fino a quando la maxi-prigione non sarà costruita, ovvero almeno per qualche anno ancora, la situazione di Forest resterà immutata. Come si fa a pensare che persone che sono state capaci, per anni, di utilizzare la prigione di Forest per spezzare migliaia di persone e di garantire le atrocità che i detenuti subiscono, non faranno esattamente lo stesso una volta che la nuova prigione entrerà in funzione?
Per sbarazzarsi delle ultime illusioni sull’umanità del potere, bisognerebbe comprendere perché la prigione di Forest è quella che è oggi. Non è un caso, né il risultato di un percorso tragico, né un’incresciosa aberrazione. È una scelta. Una scelta del potere di disporre di un tale strumento per iniettare docilità nei quartieri di Bruxelles. Di terrorizzare coloro che sono portati a infrangere la legge. E non vi sbagliate, una nuova prigione avrebbe esattamente la stessa esigenza. Se anche oggi adotta forme meno «atroci» (tenendo presente che rinchiudere qualcuno costituisce di per sé una tortura), domani, per meglio adempiere alla sua funzione di punizione e di terrore, accoglierà nuovamente squadrette di secondini picchiatori, celle da tre o da quattro, annientamento dei detenuti per malattie e scarsa igiene,… Il fantasma di Forest infesta qualsiasi carcere, vecchio o nuovo che sia.
Il grido di rabbia è perciò anche un grido rivolto al futuro. Non accettare oggi significa prepararsi a non accettare domani. È per questo che occorre chiudere Forest, ora. Dobbiamo chiuderla. Demolirla perché non possa essere ricostruita. Con la forza del nostro rifiuto e la violenza della nostra rivolta. La ruina.
Insalubre, invivibile, la prigione di Forest deve diventare ingestibile. I detenuti possono mettersi all’opera, con la rivolta e l’ammutinamento, ma anche con il sabotaggio. La prigione di Forest è talmente vecchia che delle condotte d’acqua sabotate, dei circuiti elettrici danneggiati, possono renderla incontrollabile (cosa che comporterebbe automaticamente la sua chiusura, come per la prigione di Verviers quasi quattro anni fa). Di allagamento in allagamento, incoraggiamo i nostri cari all’interno ad accelerare la chiusura di Forest col sabotaggio; stiamo al loro fianco per far loro sentire la nostra complicità e la nostra solidarietà.
E pure all’esterno, possiamo mettere il nostro granello di sabbia nell’infernale ingranaggio per farlo scoppiare. I responsabili politici, le istituzioni complici, le imprese che vi speculano, i collaboratori dell’opera repressiva, non sono protetti da mura o da filo spinato. Spesso si trovano all’angolo della nostra via. Rendiamo la loro esistenza impossibile, il loro quotidiano spargere e garantire il terrore che regna nella prigione di Forest. E quando ciò condurrà alla sommossa nella prigione di Forest, riappropriamoci di un passato non così lontano, quando si scendeva nelle strade armati di pietre e molotov, per fare anche noi sommosse nelle strade di questa necropoli.
Se vogliamo demolire subito e da noi stessi la prigione di Forest, non è certo per accettare una nuova prigione domani. Queste due battaglie, contro due galere, vanno mano nella mano. Nel loro cuore portano libertà e solidarietà. E questo le rende estremamente esplosive.
[tradotto dal numero unico Demolire la prigione di Forest ora, settembre 2015]

2015/08/18

La guerra per l’immaginazione

Filed under: Italiano — lacavale @ 09:26

Il nostro ambiente cambia a grande velocità. E allo stesso tempo, in maniera lenta ma inesorabile, quasi inavvertitamente, cambiamo anche noi. L’ambiente ci cambia. Influenza i nostri atti e i nostri gesti, la concezione del nostro tempo, i nostri movimenti, i nostri desideri e i nostri sogni.

Guarda questa città. È un luogo in uno stato di costante trasformazione. Il potere vi erige nuovi centri commerciali e carceri, ne occupa i quartieri con migliaia di nuove telecamere e commissariati supplementari, vi costruisce loft per i ricchi e spinge i poveri fuori dalla città, vi estende i trasporti pubblici affinché chiunque ogni giorno riesca comunque ad arrivare puntuale al proprio posto nell’economia. Eppure — e i difensori del sistema lo sanno fin troppo bene — l’occupazione del territorio con tutte queste infrastrutture resta in fondo relativa. Nello spazio di qualche notte selvaggia, una folla che insorge potrebbe tecnicamente parlando ridurre tutto in cenere. Proprio per questo la vera occupazione — l’occupazione duratura in grado di garantire che l’oppressione sopravviva sotto forme differenti attraverso la storia — si trova altrove. È nelle nostre teste. Noi cresciamo in un ambiente e senza pietà questo ambiente cerca di determinare la nostra immaginazione. È questo lo scopo che i potenti teorizzano quando non risparmiano né tempo né denaro nel trasformare la città di Bruxelles. Fondamentalmente non vogliono solo che le nostre attività quotidiane siano al servizio di questo ambiente, ma anche che i nostri pensieri siano circoscritti dalle sue cornici. Cosicché i nostri sogni restino sempre all’interno delle gabbie in cui l’ambiente ci tiene reclusi: cittadino, consumatore, impiegato, prigioniero, piccolo delinquente/commerciante marginale… È qui che si situa la vera vittoria del potere: nel momento in cui viene cancellata ogni memoria delle rivolte che demolivano quelle gabbie. In questa città, non molto tempo fa, quel genere di rivolte sconvolgevano la routine quotidiana. Gli sbirri venivano attirati in agguati, i commissariati erano attaccati, la videosorveglianza veniva sabotata, i gabbiotti della metropolitana erano messi fuori uso, i quartieri erano diventati pericolosi per ogni tipo di divisa, c’erano rivolte in carcere ed echi solidali nelle strade… Lo Stato preferirebbe che si dimenticassero tutte queste possibilità che vengono colte sempre meno. Una volta dimenticate, cesserebbero semplicemente di esistere. È una battaglia incessante per tenere aperte tali possibilità, per spingerle più in là, per inventarne di nuove e sperimentarle nella pratica. È una lotta costante per l’immaginazione, che può essere il combustibile di un fuoco incontrollabile contro l’oppressione, oppure soffocare ogni possibile focolaio. L’azione diretta in tutte le sue forme è la nostra arma. Come piede di porco che forza le porte dell’immaginazione, essa rende il pensiero pronto e l’agire in condizione di combattere.

Non c’è che il gioco offensivo fra i due che possa renderci davvero pericolosi per l’ordine costituito. Immaginiamo ciò che appare impossibile e facciamo ciò che appare impensabile.

2015/06/27

«La maxi-prigione non sarà costruita sulla nostra rassegnazione» [giugno 2015]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:54
A Bruxelles stanno per iniziare i lavori per la costruzione di una maxi-prigione, la più grande del paese. Sorgerà ad Haren, nella periferia a nord della città, non troppo lontano dal quartier generale della Nato. Contro questa grande opera della repressione è in corso da anni una lotta portata avanti da chi non nasconde il proprio odio per qualsiasi autorità: volantini, manifesti, libri, video, manifestazioni selvagge, occupazioni, concerti, appuntamenti, dibattiti… tutto ciò ha contribuito a creare e diffondere quell’ostilità che non è rimasta sulla carta, ma si è concretizzata in decine e decine di azioni dirette. Atti materiali di rivolta avvenuti non solo nei quartieri più caldi della capitale, ma in tutto il Belgio. E, anche solo per questo motivo, impossibili da attribuire a poche teste calde.
Si tratta di una «squisita elevazione del braccio e della mente» che sta preoccupando le autorità belghe, essendosi dimostrata alla portata di tutte le collere e di tutte le intelligenze. Nonché determinata a non accettare i compromessi della politica. Ciò spiega il motivo per cui sono in molti ad essersi mobilitati, utilizzando ogni mezzo, per arrestare questa lotta contro la futura maxi-prigione di Bruxelles.
Non sono riusciti ad arrestarla i recuperatori di (estrema) sinistra che mal sopportano una lotta autorganizzata condotta in modo autonomo, senza elemosinare consensi politici, rivolta esplicitamente contro tutte le autorità.
Non sono riusciti ad arrestarla i giornalisti che in particolare nel recente periodo si sono dati da fare per trasformare i nemici di ogni galera in nemici di ogni essere umano, dipingendoli come belve assetate di sangue intenzionate a prendersela con chiunque.
Non sono riusciti ad arrestarla gli inquisitori in ermellino che hanno cercato inutilmente di dividere i sovversivi fra buoni contestatori e cattivi sabotatori.
Non sono riusciti ad arrestarla gli sgherri in uniforme o in giacca e cravatta con le loro operazioni, i quali si sono spinti fino a fare proposte indecenti pur di ottenere collaborazioni.
L’ultima di queste operazioni “anti-terrorismo” è scattata all’alba di mercoledì 10 giugno, quando i poliziotti sono stati sguinzagliati per procedere ad alcune perquisizioni ed al sequestro di ogni carta, di ogni pubblicazione, di ogni singolo volantino o manifesto, di ogni scritto e di ogni apparecchio informatico trovato nelle abitazioni perquisite e nel Passage, il locale di lotta contro la maxi-prigione. Condotti negli uffici della Polizia Federale, gli anarchici hanno rifiutato di rispondere a qualsiasi domanda venendo liberati dopo alcune ore.
L’artefice di questa brillante operazione è il procuratore del Re, Patrick De Coster. Nonostante il cognome che porta, decisamente non ama i ribelli alla Thyl Ulenspiegel. Il suo lugubre ufficio sarà ora invaso da carte anarchiche. Considerato che già nel 2005 venne dato alle fiamme, è un buon auspicio. In fondo Le Passage può anche farne a meno; è già pieno di compagni, solidali, complici…
 [Finimondo, 11/6/2015]

Ribelliamoci contro la maxi-prigione [noviembre 2014]

Filed under: Italiano — lacavale @ 10:53
Ricochets è un bollettino nato in seno alla lotta contro la costruzione di una maxi-prigione a nord di Bruxelles. È una lotta al di fuori di ogni partito e organizzazione ufficiale, una lotta che propone di impedire direttamente, concretamente, da noi stessi, la costruzione di questa nuova galera. È una lotta vasta, in quanto la maxi-prigione è un progetto emblematico dei tempi che corrono: un generale giro di vite, un aumento della repressione, una violenta ristrutturazione della città in funzione dei bisogni del potere e dell’economia…
Ricochets ha lo scopo di condividere le notizie su questa lotta, di diffondere le sue diverse espressioni, di approfondirla con riflessioni critiche. Intende creare uno spazio autonomo di legami tra coloro che si battono direttamente contro questo nuovo carcere e aprire così una possibilità: quella che le loro azioni possano rimbalzare in uno slancio incontrollabile.
 
Ribelliamoci contro la maxi-prigione
Lo Stato belga vuole costruire un nuovo carcere ad Haren, a nord di Bruxelles. È previsto che diventi la più grande struttura detentiva del Belgio, una maxi-prigione, un vero villaggio penitenziario che raggrupperà cinque diverse carceri in un solo luogo. Come le altre nuove prigioni costruite in questi ultimi due anni, quella di Bruxelles sarà inoltre realizzata da un «partenariato pubblico-privato». Ciò significa che la sua costruzione e gestione sono interamente in mano ad imprese private, e che lo Stato l’affitta a tali aziende per 25 anni, dopo di che diventerà infine una sua proprietà. Non occorre cercare troppo lontano per comprendere gli interessi economici giganteschi che questo progetto rappresenta.
Questa maxi-prigione sarà anche la prima in Belgio in cui sarà possibile rinchiudere tante persone (il complesso conterrà 1200 celle), fra uomini donne e bambini. Un tribunale interno al carcere permetterà inoltre di limitare gli spostamenti di detenuti al minimo indispensabile.
La costruzione di questa atrocità è la ciliegina sulla torta del «master plan» concepito da uno dei precedenti governi e che prevede la costruzione di circa nove nuovi carceri, in ogni angolo del paese. Questo progetto viene spacciato alla popolazione come la risposta ultima al sovraffollamento e alla marcescenza avanzata di certe carceri, come un grande passo verso una reclusione più umana, più attenta al reinserimento dei detenuti. Una tale mossa era per il potere quasi inevitabile, dato che il mondo carcerario da qualche anno è tormentato da evasioni, da sequestri di secondini, da proteste, da piccoli e grandi ammutinamenti. Per di più le condizioni di detenzione hanno generato diversi interventi internazionali che hanno bacchettato lo Stato belga. Vogliono quindi farla finita con disordini, rivolte e attenzioni internazionali. Ma tutto questo discorso di umanizzazione, estratto dal cappello in tempi di presunta crisi per far sì che la popolazione accetti l’enorme esborso di denaro destinato alla reclusione, è ovviamente una stronzata assoluta. Non è che un rivestimento contemporaneo per qualcosa di molto antico; il potere che affila sempre più le sue armi repressive per mettersi al sicuro, per difendere se stesso, per preservare le sue mire di maggior controllo e repressione.
Attualmente in Belgio viene investito denaro in svariati modi nella giustizia. Non ci sono soltanto migliaia di nuove celle, c’è anche l’estensione del sistema del braccialetto elettronico, il domicilio coatto, le pene di lavoro, le multe, ecc. Per lo Stato, non si tratta di umanizzare le sanzioni, bensì di estenderle a tutti coloro che oggi trovano ancora delle scappatoie e riescono a sottrarsi alle grinfie della giustizia. Aumentando notevolmente la capacità delle carceri e ampliando le possibilità di pene alternative, vuole darsi tutti i mezzi possibili per avere un maggior controllo della società, per poter punire ancora più persone e rinchiuderle in una galera, nel proprio domicilio, al lavoro o strangolate dai debiti.
E i potenti hanno capito più che mai che la realizzazione di tutto ciò non passa unicamente per le costruzioni tradizionali dell’apparato repressivo. Se osserviamo la città di Bruxelles, vediamo che la maxi-prigione non è il solo progetto con l’obiettivo di controllare le persone, di determinarne in differenti maniere il comportamento, d’influenzarne e di delimitarne la vita quotidiana. Fino agli angoli più remoti della città, i progetti che lo testimoniano spuntano come funghi: dalla costruzione di nuovi commissariati all’installazione di più telecamere di sorveglianza, passando per una presenza rafforzata di poliziotti nelle strade. Dall’estensione del quartiere europeo alla creazione di una rete di trasporto pubblico estremamente controllata per condurre i lavoratori che non abitano in città rapidamente ed efficientemente fino ai posti di lavoro. Dalla costruzione di templi sempre più grandi dedicati al consumo, alla creazione di nuovi alloggi costosi nei quartieri più poveri per realizzare una «pulizia sociale». Tutte queste brillanti invenzioni non sono altro che strumenti col solo scopo di mantenere le persone nei propri ranghi o di forzarle a rientrarvi e di etichettare, umiliare, scacciare e rinchiudere chi non può o rifiuta di farlo consapevolmente. La nuova maxi-prigione ad Haren e la ristrutturazione urbana a Bruxelles sono le due facce della stessa medaglia.
Quasi due anni fa, venivano distribuiti i primi volantini che esprimevano una opposizione radicale alla costruzione del carcere ad Haren, collegando direttamente questo ennesimo progetto repressivo dello Stato alla lenta ma sicura trasformazione della città in una grande prigione a cielo aperto. Da allora, è nata una lotta che ha conosciuto molte iniziative ed intensità differenti: volantini, manifesti, scritte, presidi, occupazioni, manifestazioni, sabotaggi, azioni dirette. Tutte iniziative che respirano un’attitudine antipolitica, e sono un invito a ciascuno e a ciascuna per passare anche all’attacco, in conflitto diretto coi potenti e i loro piani. Esse rivendicano anche l’autonomia della lotta, incoraggiando ad organizzarsi quando, come e con chi si preferisce, in uno scontro diretto con ciò che ci opprime.
La costruzione della maxi-prigione ad Haren non potrà mai essere impedita solo con le parole. L’immaginazione, le idee, la perseveranza, la passione e gli atti di ciascuno e ciascuna possono per contro attizzare un incendio a cui nessun progetto di nessun bastione del potere potrà resistere. Continuiamo ad esplorare le strade, passiamo all’azione.
[Ricochets, n. 1, novembre 2014]
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