All’inizio di ottobre, un primo verdetto c’è stato. Alcuni cittadini avevano presentato una domanda di classificazione del terreno ad Haren su cui contano di costruire la maxi-prigione, credendo in tal modo di impedire, o comunque ritardare, il più grande progetto carcerario della storia belga. La risposta delle autorità competenti è stata laconica: «Ma andiamo, siamo noi che vogliamo costruire questo nuovo carcere!». La domanda è stata quindi rigettata, proprio come gli altri ricorsi giudiziari presentati prima.
«È ingiusto!» diranno probabilmente coloro che difendono la via legale per opporsi alla costruzione della maxi-prigione. «La domanda non è stata attentamente valutata. I nostri eletti non hanno sostenuto le nostre pratiche. Sono possibili altri ricorsi!». Forti di questa illusione, intendono riprovarci e ricominciano a sfogliare gli articoli di legge. E così, tentano nuovamente di convincere le altre persone che si oppongono alla maxi-prigione che la via da seguire, o comunque una delle vie da seguire, è la via legalitaria. Petizioni rivolte alle autorità. Interpellanze degli eletti. Interventi presso i media. Ricorsi giudiziari. Ma sono illusioni. E nuocciono allo sviluppo di una vera lotta contro la costruzione della maxi-prigione.
Allo scopo di incanalare una eventuale opposizione, lo Stato ha previsto un margine di manovra legale per i movimenti di contestazione. Legale proprio in quanto non nuoce all’applicazione della legge (ovvero, alle decisioni delle autorità). Lo Stato legalizza e autorizza ciò che contribuisce al mantenimento del sistema, alla sua legittimazione e al suo rafforzamento. Una lotta deve determinare i propri metodi; seguire le prescrizioni di ciò che bisognerebbe fare per opporsi ai suoi progetti, significa tarparsi le ali nello scontro già non facile col potere e le sue forze giudiziarie, burocratiche, poliziesche, mediatiche, finanziarie.
Per quelli che si oppongono ad un progetto dello Stato, per quelli che dicono in modo chiaro e netto No alla costruzione della maxi-prigione, la via legalitaria è quindi un tranello che devia l’attenzione dalla vera sfida che si pone: come impedire, da noi stessi, la costruzione di questa maxi-prigione?
Chi predica la strada legalitaria porta acqua al mulino dello Stato. È abbastanza chiaro il caso attuale di alcune organizzazioni ufficiali che si dichiarano “oppositrici” o “critiche” del progetto della maxi-prigione, servendosi artatamente della rabbia e del rifiuto categorico di tante persone, nei quartieri di Bruxelles come nel paese di Haren, per assicurarsi un posto al tavolo dei potenti. Doppio discorso, doppia faccia, è il caso di spiegarlo ancora una volta? Se è vero che nessuno può pretendere di avere una ricetta in tasca per lottare contro la maxi-prigione, non si può più restare indifferenti davanti alle reiterate manovre di sabotare l’autonomia di questa lotta e di farla deviare verso obiettivi politici (come negoziare una «piccola prigione» invece di una maxi-prigione; terre agricole accessibili e lo spostamento della maxi-prigione altrove; ecc.). Perché la lotta è anche darsi i mezzi per lottare, scoprire come poter fare le cose, appropriarsi di tutto un arsenale di metodi, del passato e del presente, per combattere i progetti del potere. Appellarsi allo Stato, il dialogo con le istituzioni, il riconoscimento e la sacralizzazione della legalità, le petizioni, le sollecitazioni presso gli eletti e i partiti, non rafforzano l’autonomia della lotta ma la spaccano. Non fanno che ripetere il vecchio ritornello su cui si basa l’autorità statale: niente è possibile al di fuori dello Stato. Noi diciamo: niente è possibile nello Stato. Diciamo: per impedire la maxi-prigione, il miglior modo di lottare è farlo da noi stessi e direttamente, attraverso l’auto-organizzazione e l’azione diretta. Se questa auto-organizzazione può realizzarsi in diverse maniere, se l’azione può assumere i mille colori dell’arcobaleno, la via legalitaria non preconizza che un solo metodo, sbagliato e ingannevole a nostro avviso: rientrare nel gioco dello Stato invece di opporvisi.
L’illusione legalitaria si basa sulla credenza che, malgrado l’oppressione flagrante, la corruzione e gli abusi, lo Stato serva comunque «l’interesse generale», e che perciò ci sia un senso a chiedergli qualcosa, accettando di farlo nel modo e nel momento da lui prescritti. La realtà è assai più cruda. Chi entra in lotta per impedire il più grande progetto carcerario della storia belga se ne renderà presto conto. Per lui, si aprirà la questione di come lottare contro uno Stato determinato ad imporre tale progetto con ogni mezzo possibile. Le modalità per rispondere non si trovano né in un codice né nella bocca dei politici, ma si trovano solo in noi stessi. Nella capacità di organizzarci tra di noi, senza partiti né organizzazioni ufficiali. Nella creatività di immaginare mille maniere per ostacolare concretamente il buono svolgimento del progetto della maxi-prigione. Nella determinazione di mantenersi fermi nel rifiuto di questo progetto – nel No chiaro e netto – e di far vivere questo No nella strada e nei campi.
[Ricochets, n.1, novembre 2014]